(Rough) Translator

31 agosto 2014

Playing with Tyrannosaurs

La Tafonomia è la Cenerentola della Paleontologia. Bistrattata, dimenticata, emarginata, quando del tutto ignorata, essa è invece la Regina della nostra disciplina, senza la quale il mondo paleontologico sarebbe caos, anarchia, invaso da mitologie e superstizioni. In numerose occasioni, in questo blog, ho rimarcato come l'indagine su un fossile, in particolare per determinare informazioni su fenomeni raramente fossilizzabili, debba sempre partire dall'analisi tafonomica: ovvero, l'analisi delle condizioni fisiche, ambientali, geologiche che portano alla formazione e manifestazione del fossile. L'analisi tafonomica in un fossile è sempre prioritaria rispetto ad inferenze biologiche, per l'ovvio motivo che un fossile è prima di tutto un oggetto geologico formatosi in un contesto geologico. Dimenticare la tafonomia e guardare un fossile come se fosse un resto di animale morto oggi, quindi come se fosse un oggetto esclusivamente biologico, è il peccato originale di molta “paleobiologia” (spesso enfatizzata dai media), che non esito invece a chiamare “paleo-mitologia”.
Il caso di oggi mi pare un classico da manuale del “come fare paleo-mitologia”. Non se la prenda l'autore dello studio, ma dopo aver letto l'articolo che sto per citare, non ho potuto evitare la famosa frase fantozziana sulla corazzata Potemkin.
Rothschild (2014) discute di alcuni resti ossei isolati di dinosauri recanti segni di morso interpretabili come lasciati da theropodi (in particolare, Tyrannosauridi) e, usando un ragionamento deduttivo tratto dall'analisi del comportamento di predatori attuali, conclude che quei segni di morso non furono prodotti durante la consumazione di quelle ossa (ovvero, come segni lasciati da un predatore o saprofago su una carcassa), bensì sarebbero interpretabili come prova che quello specifico theropode giocò con quell'osso. In breve, Rothschild (2014) ritiene che sia possibile identificare prove di un comportamento ludico in un fossile mesozoico.
Prima che qualcuno, affascinato dall'ipotesi di un Tyrannosaurus che gioca con un osso di dinosauro, mordicchiandolo come farebbe un cane con la propria palla, possa schierarsi anima e cuore con questa idea, va chiarito subito un aspetto epistemologico fondamentale: il problema se i dinosauri in vita giocassero ed il problema se i fossili attuali conservino prove di gioco sono due problemi separati. Si può discutere per ore, in base ad analogie, comparazioni ed inferenze neurologiche ed etologiche tra dinosauri ed animali viventi, se l'ipotesi del gioco nei dinosauri sia plausibile o meno. Quello è il “problema astratto” sul gioco, ovvero, una discussione puramente teorica, quasi filosofica. Difatti, se non prende in considerazione le prove dirette, mi pare un problema più filosofico che scientifico. Il secondo problema, che è quello su cui invece vale la pena discutere, è chiaramente paleontologico: ovvero, se effettivamente esistano (o possano esistere) fossili che mostrino prove di gioco, e se il gioco sia un comportamento in grado di lasciare tracce fossili identificabili in modo non-ambiguo. Spero che la distinzione sia chiara. A me non interessa discutere del gioco in “modo astratto”. La mera inferenza filogenetica, in questo caso, è irrilevante. Prima di tutto, per affermare il gioco nei dinosauri, occorre chiarire se e come il gioco possa fossilizzare, ovvero, se quel fenomeno sia incluso nell'ambito di azione della scienza paleontologica, la scienza dei fossili. Ed è qui che l'argomento di Rothschild (2014) fallisce per la debolezza delle sue argomentazioni sul piano tafonomico.
Rothschild (2014) parte da una domanda: tutte le tracce di morsi nei fossili sono tracce dovute ad un comportamento alimentare (ovvero, morsi lasciati sulle ossa per strappare tessuti commestibili)? Ovviamente, no: ad esempio, abbiamo morsi lasciati tra animali che, probabilmente, erano in lotta tra loro, morsi con segni di rigenerazione dell'osso che implicano che quell'animale non era morto quando ricevette il morso. Questo primo passo logico quindi permette di ammettere comportamenti non-alimentari come causa di segni di morso in ossa. Permette, ma non implica.
Il secondo passo del ragionamento di Rothschild (2014) è quello di chiedersi se alcune aree dello scheletro siano evitate dai predatori quando consumano una preda. Ad esempio, i piedi, formati in larga parte da ossa e tendini, sono poco appetibili e, quindi, tendono ad essere evitati da animali che consumino una carcassa. Questo ragionamento, tuttavia, non permette di generare una regola generale. Ad esempio, anche se i piedi sono evitati da un animale che consuma una carcassa intera e ricca di carne, divengono appetibili quando la carcassa è già stata ampiamente spolpata: un saprofago affamato che arrivi in ritardo al banchetto è capace di mangiare anche i piedi se quello è ciò che rimane da consumare. Inoltre, alcuni fossili di theropodi (ad esempio, l'olotipo di Sinocalliopteryx) mostrano che anche i piedi erano consumati, ingoiati e quindi, eventualmente, oggetto di morsi (nel caso del Sinocalliopteryx, la gamba intera di un microraptorino, con anche i piedi, era presente nell'addome del predatore).
Inoltre, Rothschild (2014) ritiene che il comportamento alimentare sia da escludere quando queste ossa “non appetibili” e con segni di morsi siano rinvenute isolate e non associate a carcasse. Il ragionamento, in questo caso, è il seguente: se un animale trova un osso isolato (e quell'osso non è “appetibile” perché proviene da parti anatomiche prive “di carne”) e morde quell'osso, allora lo farà per motivi non-alimentari. Anche qui, il ragionamento è basato su un'errata analogia etologica e dimenticando di ragionare tafonomicamente: il fatto che un osso fossile con segni di morso sia rinvenuto isolato oggi non implica che, in origine, quei morsi furono lasciati quando l'osso era già isolato dallo scheletro. Generalmente, un osso fossile isolato indica che la carcassa fu smembrata (da vari agenti: dai saprofagi all'acqua di un fiume), ma è difficile – se non impossibile – stabilire se i morsi nell'osso furono inflitti prima o dopo che la carcassa fu smembrata e disarticolata. Pertanto, non si può leggere “alla lettera” quell'osso e concludere che isolamento dell'osso fu precedente al morso sull'osso, e quindi non si può interpretare quel fossile come prova di “comportamento su un osso isolato non appetibile”.
Tuttavia, Rothschild (2014) pare non considerare queste obiezioni, e quindi conclude che i segni di morso in regioni scheletriche “non appetibili” non possano essere interpretati come segni di consumazione e che, “di conseguenza”, la spiegazione di tali morsi debba essere cercata in comportamenti non-alimentari, ad esempio, comportamenti privi di effettiva finalità pratica, che, nell'ambito dell'etologia (dei viventi) sono inclusi nell'ampia categoria dei comportamenti ludici.
Ovvero, la logica che fonda l'ipotesi di Rothschild (2014) è: segni di morsi in ossa – i quali non sono plausibili come segni di consumazione – sono invece interpretabili come segni lasciati da un animale che stava giocando con quell'osso.
No. Il ragionamento non regge.
L'esempio principale portato da Rothschild (2014) è a mio avviso paradossale della inconsistenza logica ed empirica di questa ipotesi. Esistono numerosi condili occipitali isolati di ceratopside con segni di morso: Rothschild (2014) sostiene che il condilo occipitale non sia una parte anatomica appetibile, e che quindi morsi in quella zona del cranio siano non-alimentari. Ciò è paradossale, dato che il condilo occipitale articola il cranio con il collo, ed è circondato dai muscoli che connettono collo e testa, sia quelli che si inseriscono nella nuca che quelli che si connettono al basicranio. Il condilo occipitale è proprio il punto di attacco della testa: chiunque voglia staccare una testa da un corpo deve praticare una serie di tagli che hanno una buona probabilità di colpire il condilo occipitale. In breve, l'idea che il condilo occipitale non sia target di morsi alimentari è ridicola.
Inoltre, e qui torno a onorare Sua Maestà Tafonomia: il condilo occipitale è, per sua natura, un osso ideale a preservarsi isolatamente, dato che è molto robusto e di forma arrotondata, e quindi ha la tendenza a rotolare via e a conservarsi a lungo anche dopo che la carcassa è stata smembrata e disarticolata: pertanto, è molto probabile che si rinvenga isolato dalle altre ossa, trascinato lontano dagli agenti fisici. Chi ha ben chiara la tafonomia di queste ossa, non si stupisce di rinvenire un condilo occipitale isolato, e non ha bisogno di qualche bizzarra ipotesi per spiegare il ritrovamento di condili occipitali isolati.

Concludendo, indipendentemente dall'argomento “astratto” sulla presenza o meno di comportamenti ludici in animali estinti, l'argomento “empirico” di Rothschild (2014) pecca di ingenuità e iper-semplificazione. In particolare, la quasi completa assenza di analisi tafonomica e di argomentazioni tafonomiche sull'origine di questi fenomeni, esclude questa ipotesi dall'ambito della paleontologia (la scienza dei fossili), relegandola all'ampio insieme delle bizzarre speculazioni sugli animali del passato.
La speculazione è un gioco, ma la paleontologia è altro.

Bibliografia:
Bruce M. Rothschild (2014) Unexpected behavior in the Cretaceous: tooth-marked bones attributable to tyrannosaur play, Ethology Ecology & Evolution. DOI: 10.1080/03949370.2014.928655

29 agosto 2014

Datanglong: un nuovo carcharodontosauriano?


Iniziavo a soffrire una crisi per astinenza da nuovi theropodi mesozoici; per mia fortuna in questi giorni sono stati pubblicati due nuovi taxa. Ognuno ha le proprie dipendenze...
Il primo di questi nuovi theropodi è basato su una serie articolata di vertebre (ultima dorsale, il sacro completo e le prime due caudali) associata ad un bacino parziale, appartenente ad un grande theropode dalla Formazione Xinlong (Cretacico Inferiore della Cina meridionale), che Mo et al. (2014) riferiscono ad un nuovo carcharodontosauriano basale: Datanglong guangxiensis.
Datanglong presenta una interessante combinazione di caratteri: le parapofisi dorsali sono molto allungate, come nei theropodi di grado ceratosauriano, la pneumatizzazione vertebrale è estesa alle ultime dorsali ma non al sacro, la prima caudale presenta un recesso dorsale a livello della possibile lamina tra costa e prezygapofisi (preferisco usare il termine “costa” invece che “diapofisi/processo trasverso” per le caudali), l'ileo ha un peduncolo pubico la cui faccetta distale è rettangolare e lunga più del doppio della sua lunghezza (come nei coelurosauri, e alcuni megaraptori, qualora questi ultimi non siano inclusi in Coelurosauria), la lamina preacetabolare non mostra una mensola mediale. Inoltre, l'ileo è perforato da vari recessi pneumatici, come in Neovenator e Aerosteon.
La collocazione in una ampia politomia alla base di Carcharodontosauria ottenuta da Mo et al. (2014) è basata sull'analisi dei tetanuri non-coelurosauri di Carrano et al. (2012), la quale ha un ridotto campionamento per i coelurosauri (e quindi non può testare, tra l'altro, l'eventuale posizionamento tyrannosauroide dei megaraptori, che quindi risultano “obbligati” in Carcharodontosauria). Tuttavia, Datanglong non mostra molti caratteri da carcharodontosauriano, se non quelli condivisi con i megaraptori (che potrebbero non essere membri di Carcharodontosauria).
Immesso in Megamatrice, Datanglong si colloca nella parte basale di Coelurosauria, interno al “grado compsognathoide”, nome informale di una regione di Theropoda che potrebbe raggruppare forme giovanili di vari tetanuri (come Sciurumimus) accomunate dall'avere una morfologia generale molto simile ai compsognathidi (ammettendo che questi ultimi siano un clade). Questo risultato è molto interessante, dato che, finora, tutti i taxa risultati parte di quel grado erano di piccola taglia (e, in alcuni casi, conosciuti solo per esemplari molto immaturi), mentre l'olotipo di Datanglong ha dimensioni comparabili ad esemplari maturi di Allosaurus: ciò potrebbe indicare che quel grado non sia (almeno in parte) un artefatto della inclusione di esemplari immaturi, ma avere un reale significato filogenetico.

Bibliografia:
Carrano MT, Benson RBJ, Sampson SD. 2012. The phylogeny of Tetanurae (Dinosauria: Theropoda), Journal of Systematic Palaeontology 10:211-300.
Mo J, Xhou F, Li G, Huang Z, Cao C. 2014. A new Carcharodontosauria (Theropoda) from the Early Cretaceous of Giangxi, Southern China. Acta Geologica Sinica 88:1051-1059.

27 agosto 2014

Sulla oggettiva inconsistenza del nostro effimero sciovinismo



Dinosauria è il clade di vertebrati terrestri di maggiore successo negli ultimi 200 milioni di anni. Dalla fine del Triassico ad oggi, nessun altro clade di vertebrati ha prodotto un numero così alto di specie. Persino oggi, il numero di specie di Dinosaria è comparabile alla somma delle specie di Amphibia e Mammalia. Dinosauria è l'unico clade animale ad essere presente per tutto l'anno in tutti i continenti, incluso l'entroterra dell'Antartide. Dinosauria è l'unico clade di vertebrati ad aver evoluto animali volanti grandi come insetti (i colibrì) e animali terrestri grandi come balene (i sauropodi): nessun altro clade ha evoluto animali capaci di vincere la forza di gravità e spostare dozzine di tonnellate di peso senza l'aiuto della spinta idrostatica, ed evolvere eleganti volatori capaci di mantenersi sospesi immobili in aria. Il bauplan di Dinosauria è l'unico nel regno animale che ha occupato in modo persistente e con successo sia le nicchie ecologiche giganti che quelle miniaturizzate. Il gigantismo, con masse adulte maggiori di quelle di qualunque altro clade terrestre, in Dinosauria si è evoluto almeno tre volte: in Sauropoda, Theropoda ed Ornithopoda. Ed ognuno di questi tre gruppi ha evoluto dozzine di volte forme giganti, per almeno 150 milioni di anni. Dinosauria include gli animali con il tasso metabolico e di crescita più elevato nel regno animale, il sistema respiratorio più efficiente, il sistema tegumentario più complesso: la piuma, una struttura frattale dalla enorme versatilità meccanica e termodinamica. La temperatura corporea media di un uccello può mantenersi sui 40 gradi, valore che porterebbe rapidamente alla morte ogni altro animale. Dinosauria è l'unico clade con membri capaci di svolgere intensa e continuata attività muscolare a 10 mila metri di quota, come dimostrano le migrazioni annuali di uccelli sopra la catena himalayana. Sono membri di Dinosauria gli unici animali a parte Homo sapiens ad aver manifestato capacità logico-analitiche di tipo astratto: il corvo della Nuova Caledonia è capace di risolvere problemi logici insuperabili per una scimmia non-umana. I più grandi predatori terrestri sono tutti membri di Dinosauria: nessun altro animale predatore noto ha superato le due tonnellate, massa superata almeno una quindicina di volte nell'evoluzione di Theropoda. Dinosauria ha evoluto la forma di locomozione neurologicamente più complessa esistente: il bipedismo parasagittale digitigrado. L'efficienza di questo sistema locomotorio è dimostrata dalla persistenza di questo adattamento per l'intera storia di Theropoda, con una disparità dimensionale che va dai colibrì ai tyrannosauridi, tutti bipedi parasagittali digitigradi. L'animale conosciuto che sia capace di raggiungere la più elevata velocità è un membro di Dinosauria volante.

Tutti questi fatti, che attestano il successo evolutivo, cronologico, numerico, dimensionale, ecologico, morfofunzionale e biomeccanico di Dinosauria, sanciscono una inevitabile conclusione, che forse può frustrare il nostro egocentrico ed insuperabile orgoglio di auto-proclamati “Vertici del Creato”: i dinosauri sono la vera forma di vita superiore su questo pianeta. Una volta rimossi i criteri che più ci fanno comodo, è inevitabile riconoscere che il nostro modello biologico è meno efficiente, meno vantaggioso, meno persistente, meno diffuso. Vincolati dalla combinazione di un macchinoso sistema masticatorio che limita fortemente la durata media dell'esistenza, e da un iper-parassitico sistema riproduttivo, troppo K-orientato, alla scala delle decine di milioni di anni i mammiferi sono intrinsecamente meno efficienti di qualunque dinosauro di massa comparabile.
Il record paleontologico lo dimostra.
Una prova su tutte: la “nostra (autoproclamata) Era” iniziò solo dopo che una stella cadde dal cielo e abbattè il mondo dei dinosauri non-aviani. Senza l'intervento del Cielo, molto probabilmente i mammiferi sarebbero ancora piccoli, marginali, in competizione con lucertole e insetti per i piani bassi del mondo dei dinosauri. Ed anche quando buona parte di Dinosauria fu spazzata via dall'immane cataclisma, i dinosauri sopravissuti proliferarono, superando gli altri vertebrati terrestri nel numero di specie, di nicchie, nell'evolvere forme più eleganti ed efficienti di locomozione sia in terra che in aria, e sistemi ben più efficienti di metabolismo.
Noi arriviamo dopo. E per quanto ci esaltiamo per qualche migliaio di anni di successo, nostante sia palese che ci stiamo auto-distruggendo - nella migliore tradizione delle specie fallimentari - non dureremo mai qualche centinaio di migliaia di anni, né milione di anni, né tanto meno 200 milioni di anni. Non saremo mai vincenti (in senso biologico, l'unico che conta) come i dinosauri.

23 agosto 2014

S-Pronare a Ri-Flettere

Il titolo è un gioco di parole che si perde nella traduzione...
Uno dei mantra del BiDOn (Bimbominkia Dinosaurologico Online) è dare sfoggio di erudizione, ad esempio nel menzionare la parola “pronazione”. Sarebbe interessante capire quante volte il termine sia ripetuto meccanicamente senza la minima cognizione del significato della parola: e, difatti, nella maggioranza dei casi, sospetto che il termine sia usato a sproposito.
Dire che “Velociraptor non pronava le mani” è improprio. Il termine “pronazione” (ed il verbo “pronare”) si riferiscono a movimenti relativi di una parte rispetto ad un'altra. La pronazione è sempre “pronazione di una parte rispetto ad un'altra parte”. La “pronazione-punto-e-basta”, come quella delle fantomatiche mani di Velociraptor, è priva di significato.
La mano umana è in grado di pronare (e quindi, anche di supinare) relativamente all'asse prossimodistale dell'avambraccio: ciò permette di orientare la superficie flessoria della mano sia parallelamente che perpendicolarmente all'asse mediolaterale distale dell'omero. La torsione dell'avambraccio lungo quelle due posizioni è l'atto della pronazione. Tuttavia, menzionare questo moto non implica automaticamente, come si legge spesso online, che i palmi delle mani siano “rivolti uno verso l'altro”, perché quell'ultima situazione dipende dalla postura generale assunta dal braccio. Io posso pronare le mani rispetto all'avambraccio e contemporaneamente flettere l'avambraccio rispetto all'omero: i palmi delle mani in quel caso sono entrambi rivolti ventralmente (rispetto agli assi “plesiomorfici” del mio corpo) e anteriormente (qualora esegua questa postura assumendo la stazione eretta). In breve, l'orientazione dei polsi dipende da come l'intero braccio è articolato rispetto al corpo, e dalle varie posizioni assunte dall'omero rispetto al glenoide, dall'avambraccio rispetto all'omero, e dall'eventuale possibilità di pronare al polso. Menzionare solamente la pronazione per descrivere l'orientazione del palmo della mano “funziona” solo con i dinosauri giocattolo, non con animali reali.
La complessa geometria tridimensionale delle articolazioni nell'arto anteriore di Triceratops.

Il movimento di pronazione/supinazione dipende dalla morfologia dell'articolazione avambraccio-polso. Un animale privo di articolazioni in grado di generare una torsione della regione distale dell'avambraccio rispetto alla regione prossimale non prona/supina. Non tutti gli animali hanno articolazioni che permettono la torsione dell'avambraccio (quindi, una pronazione attiva della mano rispetto all'omero). Ad esempio, gli archosauri ne sono privi. Pertanto, anche se di solito si menziona la pronazione solamente con i theropodi, il medesimo discorso è valido per tutti gli altri archosauri (Bonnan e Yates 2007; Fujiwara 2009; VanBuren e Bonnan 2013): uccelli, sauropodomorfi, ornithischi, ma anche gli pseudosuchi. Anche se a prima vista può sembrare il contrario, nemmeno i coccodrilli hanno avambracci capaci di torcersi per produrre attivamente una postura pronata per la mano. Difatti, come ho scritto prima, l'adesione del palmo della mano al terreno nei coccodrilli è conseguenza dell'intera morfologia pettorale e del braccio, e non dipende dalla mera pronazione della mano. Conseguenza “artistica” di questo fatto è che la grandissima maggioranza delle ricostruzioni di dinosauri quadrupedi è scorretta a livello dell'arto anteriore. Rare eccezioni sono le opere nelle quali gli autori dimostrano la consapevolezza della complessa anatomia dell'arto anteriore dinosauriano. Nella maggioranza degli altri casi, invece, gli arti anteriori dei dinosauri quadrupedi sono delle mere invenzioni, spesso delle brutte copie degli arti anteriori dei mammiferi pachidermi (inclusa la quasi costante presenza di falangi ed ungueali che non dovrebbero esserci).
Tutti i dinosauri quadrupedi discendono più o meno direttamente da animali bipedi, nei quali l'arto anteriore non aveva funzione locomotoria. Dato che negli archosauri non-aviani il sistema propulsivo è il sistema caudo-femorale, il fatto che nei dinosauri bipedi l'arto anteriore non sia un organo propulsivo è la mera perpetuazione del sistema locomotorio archosauriano. I dinosauri quadrupedi ereditano la non-propulsione nell'arto anteriore, il quale, di fatto, funge prettamente da punto di appoggio ma non ha una funzione “trattiva”. Ciò spiega come mai nessuna linea di dinosauro quadrupede evolva una forma di propulsione nell'arto anteriore, incluso un qualche meccanismo nella mano capace di generare una spinta locomotoria durante la flessione della mano: la mano dei dinosauri non si flette lungo una direzione parallela alla direzione del moto generata dall'arto posteriore, quindi non può partecipare a quella spinta. Al contrario, la maggioranza dei dinosauri quadrupedi tende a ridurre le capacità flessorie nella mano (sia a livello di articolazione metacarpo-falangeale sia nelle varie falangi), e ciò ha senso nell'ottica di un arto anteriore che non deve “spingere” ma solamente “sostenere”. Molti theropodi (esclusi alcuni gruppi di coelurosauri derivati e gli abelisauroidi), pur essendo bipedi obbligati, conservano delle articolazioni metacarpo-falangeali ben sviluppate, oltre a processi flessori marcati, che indicano una mobilità fluida lungo la direzione flessione-estensione della mano. Ciò è legato alla funzione predatoria della mano, che funge da “gancio” quando opera in solitaria e “tenaglia” quando agisce in concerto con l'altra mano.
A questo punto, è curioso constatare che – ancora una volta – la maggioranza degli artisti di dinosauri non si sia soffermata a riflettere sulle capacità flessorie della dita di questi animali. Ad esempio, è ragionevole supporre che durante la non-attività della mano (ovvero, quando non partecipa alla predazione) le dita della mano si flettessero, per ridurre l'esposizione e quindi l'usura degli artigli. Se badate, la maggioranza delle ricostruzioni di theropodi li mostra con le dita semi-estese, aventi il loro asse principale parallelo a quello dei metacarpi. Ciò è probabilmente ispirato alla mano degli uccelli attuali. Tuttavia, negli uccelli le articolazioni tra gli elementi della mano sono estremamente ridotte, al punto che le dita aviane non flettono (né tanto meno estendono, ma questo è già ridotto nella maggioranza dei coelurosauri).
Dato che i theropodi non-aviani conservano la capacità flessoria nelle dita della mano, non vedo il motivo per ritrarli sempre con le dita semi-estese, in particolare se l'immagine non li ritrae nell'atto di utilizzare la mano in qualche attività predatoria.

Spero di avervi s-pronato e ri-flettere...


Bibliografia:

Bonnan MF, Yates AM (2007) A new description of the forelimb of the basal sauropodomorph Melanorosaurus: implications for the evolution of pronation, manus shape and quadrupedalism in sauropod dinosaurs. In: Barrett PM, Batten DJ, editors. Evolution and palaeobiology of early sauropodomorph dinosaurs: Special Papers in Palaeontology. 157–168.
Fujiwara S (2009) A reevaluation of the manus structure in Triceratops (Ceratopsia: Ceratopsidae). Journal of Vertebrate Paleontology 29: 1136–1147.
VanBuren CS, Bonnan M (2013) Forearm Posture and Mobility in Quadrupedal Dinosaurs. PLoS ONE 8(9): e74842. doi:10.1371/journal.pone.0074842

21 agosto 2014

Steli, corolle e Mokele Mbe-Mbe


I termini per definire i cladi viventi e quelli estinti in filogenetica sono relativamente semplici da comprendere ed applicare. Eppure, regolarmente noto un fraintendimento nel loro uso e menzione. Ad esempio, proprio ieri è stato pubblicato su Nature un articolo che, nel titolo, menzionava “earliest stem mammals”. Ora, il termine indica i più antichi rappresentanti dello stelo mammaliano. Pertanto, chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il significato di “stelo” e “corolla” in sistematica, sa che i più antichi rappresentanti dello stelo mammaliano sono i grotteschi caseidi ed edafosauri della fine del Carbonifero. Quelli sono i taxa che la mia mente recupera dalla memoria alla lettura di “earliest stem mammals”. Peccato che, invece, l'articolo in questione parlasse di Morganucodon e altri mammaliaformi del Triassico, i quali sono tra i più recenti stelo-mammiferi, e non proprio i più antichi. L'errore nell'uso di “stelo” e “corolla” nasce appunto dal diffuso fraintendimento della logica operativa che genera questi termini. Eppure, è relativamente semplice applicare i concetti.

Tassonomia filogenetica di 5 specie viventi (a, b, c, d, e) e tre estinte (g, h, i). I nodi corolla (quadrati neri) sono applicabili solo se ambo i rami hanno dei terminali viventi. Gli steli conseguono alle corolle.

Una corolla è un nodo avente specie viventi su ambo le due linee che lo formano. Pertanto, corolla-Mammalia è il nodo che include monotremi ad un ramo e marsupiali+placentali all'altro ramo.
Uno stelo è qualunque linea che congiunge direttamente due nodi corolla. Ad esempio, stelo-Mammalia è la linea che collega corolla-Mammalia al nodo-corolla immediatamente più inclusivo, in questo caso, corolla-Amniota. Pertanto, è un membro di stelo-Mammalia qualunque specie lungo quella linea che dal nodo-corolla-amniotico va al nodo-corolla-mammaliano: quindi, tra i tanti, i caseidi, gli edafosauridi, gli sphenacodonti, i therocephali, i dicinodonti, i gorgonopsidi, i cinognatidi, i probainogranti, ed i morganucodonti. Edaphosaurus e Dimetrodon sono degli stelo-mammiferi, non solo Morganucodon! Pertanto, “i più antichi stelo mammiferi” sono i caseidi e gli edafosauridi carboniferi, non certo i morganucodonti triassici vissuti 70-90 milioni di anni dopo.

I concetti di “stelo” e “corolla” sono quindi legati alla procedura con cui essi sono costruiti. Non sono “realtà assolute”, ma nemmeno etichette arbitrarie, sono strumenti specifici, utili strumenti linguistici, a patto che siano usati nel modo corretto, secondo il criterio con cui sono stati definiti.

Mentre pensavo a questo post, ho ideato questo esperimento mentale, che forse può aiutare a comprendere come i concetti di “stelo e corolla” siano la meccanica applicazione di un semplice algoritmo tassonomico vincolato al contesto reale.

Immaginiamo che oggi, nelle foreste dell'Africa centrale, sia scoperto il fantomatico Mokele Mbe-Mbe, e che questa creatura mitologica risulti essere, effettivamente, un sauropode. Che implicazioni avrebbe sul piano tassonomico? Abbastanza forti, almeno dentro Archosauria.

Attualmente, corolla-Archosauria include due gruppi: corolla-Crocodylia e corolla-Aves. Il primo include i coccodrilli viventi, il secondo gli uccelli viventi. Tutto ciò che è collocato lungo la linea che collega corolla-Archosauria a corolla-Aves è uno stelo-Aves. Usando la rappresentazione mostrata prima, possiamo immaginare che corolla-Archosauria sia il nodo A, corolla-Crocodylia il nodo B e corolla-Aves il nodo C. I sauropodi fossili sono indicati dall'esagono rosa, e difatti si collocano nello stelo-Aves.
Cosa accadrebbe con la scoperta di Mokele Mbe-Mbe? Di colpo, abbiamo un sauropode vivente! Per definizione di “corolla”, quindi, il nodo Eusaurischia (che unisce uccelli e sauropodomorfi), che prima definiva un clade di importanza puramente paleontologica, diventa ora un clade di rilevanza zoologica avente in ambo le sue due linee almeno una specie vivente: ovvero, Eusaurischia diventa un nodo corolla (= “uccelli viventi + Mokele Mbe-Mbe”)! Automaticamente, stelo-Aves risulta ristretto alla linea che congiunge corolla-Aves a corolla-Eusaurischia (ovvero, la parte che oggi chiamiamo non-corolla-Aves di Theropoda), mentre la linea che collaga corolla-Archosauria e corolla-Eusaurischia diventa stelo-Eusaurischia: a questo punto, pterosauri e ornithischi diventano quindi degli stelo-eusaurischi e non sono più degli stelo-aviani (mentre taxa come Tyrannosaurus e Archaeopteryx restano stelo-aviani).

Il grafico di prima, con l'aggiunta di Mokele Mbe Mbe (j).


Queste fondamentali rivoluzioni tassonomiche sono uno dei motivi più importanti e sociologicamente drammatici per cui dobbiamo sperare che non sia mai scoperto un dinosauro (cioè, uno stelo-aviano) vivente! [sarcasmo]

20 agosto 2014

Vedere i dinosauri, senza bisogno di immagini

Per molti, è quasi impossibile scindere il concetto di “dinosauro” da quello di “rappresentazione paleoartistica di un dinosauro”, come se “rappresentazione paleoartistica di” fosse ridondante con (ed inclusa nel) termine “dinosauro”. Per moltissimi, difatti, un dinosauro deve essere “visualizzato” prima ancora che “pensato”. Scommetto che, alla pubblicazione di un nuovo dinosauro, per prima cosa molti si chiedono “che aspetto aveva?”. Io mi chiedo “dov'è la sua descrizione?”...
Eppure, oltre alla “visualizzazione” esistono anche altri modi di concepire e “pensare” un dinosauro, modi che hanno il pregio di essere più oggettivi e meno contingenti di quello dominante basato sulla iconografia, e che forniscono una quantità e qualità di conoscenza su quel dinosauro ben superiore di qualsiasi illustrazione.
Ad esempio, qui sotto avete una rappresentazione veramente molto fedele di un dinosauro:

Per comprenderla occorre una chiave di lettura, data dalla lista dei caratteri dei quali ogni simbolo in questa stringa è associato. In questo caso specifico, la lista dei caratteri è disponibile online, quindi accessibile ad ogni uomo di buona volontà.
Il taxon corrispondente a quella stringa è Tyrannosaurus.
Probabilmente, più di un lettore troverà questa “rappresentazione” di Tyrannosaurus molto arida e poco interessante. Eppure, essa non è diversa dal modo con cui un musicista concepisce uno spartito: ovvero, una sequenza di simboli che la sua mente è in grado di interpretare come una melodia coerente. Quella stringa, difatti, condensa un'enorme mole di informazioni, che, una volta tradotta, descrive Tyrannosaurus con un dettaglio che nessun paleoartista sarà mai in grado di rendere. Quella stringa, infatti, ci dice moltissimo su Tyrannosaurus: forma e proporzione delle parti del suo scheletro, posizione e relazioni tra ossa, processi muscolari, recessi pneumatici. Nessuna rappresentazione di Tyrannosaurus può includere contemporaneamente così tanta informazione in così poco spazio. Forse, un grande atlante osteologico di Tyrannosaurus potrebbe superare quella stringa in qualità di informazione, ma richiederebbe molte immagini, ed uno spazio informazionale (ad esempio, esprimibile in bit) molto maggiore della stringa qui sopra (che invece richiede solamente 1.5 kbytes). Anche sommando alla stringa la lista dei caratteri, non si va oltre i 240 kbytes, un valore inferiore a quello di una qualsiasi immagine a discreta risoluzione.
Come un musicista è in grado di comprendere lo spartito e di pensare la musica nella sua mente, senza il bisogno di ascoltare la melodia, così il paleontologo è in grado di comprendere la stringa di istruzioni e pensare Tyrannosaurus nella sua mente, senza bisogno di vedere l'animale. Ovviamente, in ambo i casi ciò è possibile solo dopo molti anni di esperienza e conoscenza, studio e allenamento della mente. Ma vi assicuro che è possibile, e permette di “vedere” i dinosauri in una dimensione irraggiungibile dall'occhio, quindi negata alla paleoarte.

18 agosto 2014

Pillola rossa, pillola blu

L'imprinting è il noto fenomeno etologico per cui i piccoli di varie specie (l'esempio classico sono gli anatroccoli) si legano affettivamente al primo oggetto in movimento che vedono alla nascita. Dato che, nella maggioranza dei casi (e, sopratutto, in quelli in cui il neonato ha qualche speranza di sopravvivere) tale “primo oggetto” è la madre, l'imprinting è un adattamento per instaurare in modo duraturo un legame vantaggioso tra genitore e prole.
L'imprinting è un comportamento istintivo, un programma relativamente semplice ed automatico, plasmato in virtù della sopravvivenza che conferiva agli individui che ne erano dotati.
Dato che è un comportamento “automatico”, l'imprinting è ottuso e stupido. Difatti, se prima della schiusa alla madre biologica sostituite un surrogato di qualunque tipo, i piccoli associeranno il concetto di “madre” al surrogato. La scena degli anatroccoli che seguono Konrad Lorenz come fosse la loro madre può risultare simpatica. Un po' più patetica, perché più evidente nel mostrare l'ottusità del programma automatico celato nell'imprinting, è la scena di un anatroccolo che considera un pezzo di legno colorato come la propria madre. Eppure, in tutti e tre i casi (con mamma anatra, con Konrad Lorenz, con il pezzo di legno) l'anatroccolo sta eseguendo il medesimo programma automatico presente nel suo giovane cervello.
Noi esseri umani siamo ovviamente più raffinati ed avanzati degli anatroccoli. Infatti, i cervelli dei nostri giovani non sono così ottusi e automatici, e non associano ad un pezzo di legno il concetto di madre. Eppure, nemmeno il potente cervello di Homo sapiens è immune dall'imprinting e dalle ottuse trappole del gretto automatismo comportamentale.
Prendete il seguente caso.
Poco dopo la nascita, il cervello del giovane Homo sapiens è immerso in un sistema di informazioni, unico nel regno animale, che tende ad associare a quasi ogni fenomeno percepibile una serie arbitraria di suoni. Li chiamiamo “nomi”. Il sistema è evidentemente un qualche adattamento tipico della specie umana. La straordinaria capacità dei piccoli di Homo sapiens di apprendere nuove parole è infatti molto simile all'imprinting degli anatroccoli: in ambo i casi, avviene nella primissima infanzia e in ambo i casi plasma in modo molto forte il comportamento futuro dell'individuo. Anche se la capacità di apprendere nuove parole persiste per tutta la vita, una volta superato quel breve momento dell'infanzia, diventa molto difficile imparare una nuova lingua, se non al prezzo di un duro esercizio di apprendimento. C'è qualcosa, nel cervello del bambino piccolo, che lo rende idoneo ad imparare una lingua, ad associare in modo automatico una parola ad un fenomeno. E non solo fenomeni, ma anche – e sopratutto – dei concetti. Il cervello umano impara quasi subito a legare a innumerevoli astrazioni una precisa parola. Il cervello umano, difatti, per non sovraccaricare rapidamente, ha la tendenza a categorizzare: crea “generalizzazioni” in cui inserire numerosi fenomeni distinti, generalizazioni alle quali, più che a quei fenomeni singoli, sarà associato un nome.
E così, oltre a “mamma” (nome dell'oggetto semovente che fornisce al cervello la maggioranza del nutrimento e della protezione), oltre a “papà” (nome dell'oggetto semovente che, per motivi ignoti, tende a disturbare il lavoro dell'oggetto semovente che fornisce al cervello la maggioranza del nutrimento e della protezione), esiste anche “cibo”, “protezione”, “oggetto semovente”, concetti che si associano a innumerevoli fenomeni in virtù di qualche loro caratteristica ricorrente. L'uso di queste categorie è sicuramente utile, dato che, generalmente, molti di questi oggetti non sono sempre presenti, ed occorre avere in memoria una qualche rappresentazione semplice (una sommaria descrizione, a sua volta basata su altre semplificazioni) di questi fenomeni, rappresentazione da ri-utilizzare ogni qualvolta quel fenomeno si presenta nuovamente. Sarebbe poco adattativo dover imparare ogni volta quale oggetto sia “papà”: meglio avere il concetto chiaro e distinto nel cervello, da applicare ogni qualvolta appaia un oggetto semovente che, per motivi ignoti, tende a disturbare il lavoro dell'oggetto semovente che fornisce al cervello la maggioranza del nutrimento e della protezione.
Di tutti gli oggetti che il cervello del giovane Homo sapiens tende ad avere un'esperienza ricorrente e persistente, ne esiste uno particolare, che, per motivi ignoti, non esce mai dal campo percettivo del cervello: a posteriori, esso è chiamato “il corpo in cui è incluso il cervello”. E come ogni altro fenomeno, a quell'oggetto viene associato un nome, un nome che il cervello impara rapidamente a ricordare, e che altrettanto rapidamente entra nel sistema di simulazioni e rappresentazioni che il cervello elabora per produrre reazioni idonee a sopravvivere: “io”. “Io” e la sua famiglia di concetti associati: “me”, “mio”.
Data la complessità della sua struttura, pare che il cervello umano (e quello di molti altri animali suoi parenti più o meno lontani) sia vincolato ad un periodico processo di disconnessione automatica, ottenuta auto-inducendo lo stato di coma. Non è chiaro se ciò sia necessario alla fisiologia del cervello o sia solamente un vincolo storico di tempi più letargici, sta di fatto che è così: praticamente ogni giorno nella vita di un Homo sapiens, questi va in coma per qualche ora. Questo bizzarro programma comportamentale, detto “sonno”, rende il sistema percettivo umano temporaneamente inattivo. Senza le categorie conservate in memoria, ogni riavvio del sistema dopo la fase di sonno riporterebbe il cervello allo stadio iniziale di assenza di concetti, un'eventualità chiaramente poco adattativa per animali immersi in un mondo informazionale “reale” quanto quello fisico. Pertanto, è probabile che non possa esistere il sonno senza un archivio di concetti abbastanza ampio e articolato. (E, di consequenza, che gli animali privi del sonno siano privi di un sistema rappresentazionale sufficientemente complesso).
Nonostante il valore adattativo della maggioranza delle categorie prodotte e conservate dal cervello, tutte queste sono un'approssimazione grossolana qualora siano analizzate nel dettaglio.
Ad esempio, alla scala molecolare ed atomica, “mamma” come la osservo oggi non è lo stesso oggetto che osservavo nel 1980: tutti gli atomi del corpo chiamato “mamma nel 1980” sono diversi da quelli del corpo chiamato “mamma nel 2014”. Quindi, sono due oggetti o è il medesimo? Dal punto di vista fisico, sono due oggetti distinti, ma la grossolanità del sistema percettivo fa sì che il cervello associ il medesimo nome a quei due oggetti distinti. Ciò avviene anche perché nel cervello esiste un concetto, molto potente, che funge da criterio organizzatore delle informazioni in memoria: il concetto di “tempo”. Solo l'applicazione del concetto di “tempo” fa sì che innumerevoli memorizzazioni distinte siano categorizzate nel medesimo archivio, quindi associate ad un medesimo termine, e, di conseguenza, siano credute essere “una stessa cosa”. La memoria rende due oggetti distinti, formati da atomi differenti, “la stessa cosa”. La memoria rende, quindi, le persone delle “persone”. Non la fisica, né la chimica, né la biologia attuale dei corpi ai quali, in ogni momento, associamo il “nome della persona”.
(Se questa conclusione può sembrarvi assurda, allora perché ad una persona che, improvvisamente, “sia cambiata” e non corrisponda più al concetto presente nel cervello, diciamo che “non sei più tu?”).

Tornando all'imprinting, immaginate ora un giovanissimo cervello di Homo sapiens al quale, fin dalla nascita, sia ripetuto continuamente che il corpo nel quale è incluso sia un qualcosa di stabile, immutabile, sia un oggetto invariante e immodificabile. Né più né meno del pezzo di legno al quale il cervello dell'anatroccolo associa il concetto di “madre”, il cervello del giovane umano si fisserà su quel feticcio concettuale. Continuamente, verrà addestrato ad usare il termine “io”, il concetto di “sé”, il valore di “individuo”, il progetto di una “personalità”, sempre associato ad una rappresentazione grossolana relativa ad un corpo che, invece di essere invariante ed immutabile, cambia continuamente. Per tutta la vita, quel cervello si illuderà dell'esistenza di un “sé” che – invano – cercherà di trovare dentro il corpo che alloggia il cervello, e, al pari del papero che per tutta la vita tenta di accoppiarsi con un pezzo di legno, plasmerà il proprio comportamento in base a quell'imprinting. A rendere tutto ancora più paradossale, è il fatto che anche il cervello stesso non sarà più “lo stesso”: l'illusione data dalla memoria, il processo di archiviazione e copiatura periodica dei concetti, crea difatti anche l'illusione che il “cervello nel 1980” sia il medesimo “cervello nel 2014”. Eppure, a livello fondamentale, quel “io” non esiste dentro il corpo dell'Homo sapiens, così come una “madre” non esiste nel pezzo di legno dell'anatra. Tuttavia, in ambo i casi, la costrizione comportamentale sarà tanto pervasiva da non poter essere evitata nemmeno nel caso (solamente umano) in cui tale finzione sia scoperta. Il sistema di istruzioni programmate, di cause ed effetti, di valori e disvalori, generati dal e conseguenti al feticcio “io” è così forte, permea l'esistenza in modo così penetrante che (anche in questo momento in cui scrivo e voi leggete) è impossibile non farne riferimento per parlarne.
Non si esce dal proprio imprinting.
Non c'è pillola rossa né pillola blu.

09 agosto 2014

Coming Soon: Spinosaurus Revolution

Artwork (c) Davide Bonadonna

Pensavo che tutto dovesse rimanere ancora in silenzio per un po', ma noto che il sito della National Geographic Society ha di fatto già aperto la breccia, e quindi si può iniziare a menzionare l'evento (ed ho chiesto conferma in proposito). Il 12 settembre prossimo, a Washington, sarà inaugurata una mostra relativa a Spinosaurus, organizzata proprio dalla National Geographic Society. Questa mostra è legata ad una serie di nuovi studi su Spinosaurus, svolti negli ultimi anni, e di cui ero al corrente. Il motivo di questo mio post introduttivo è che il team che ha svolto questa ricerca, oltre a Paul Sereno (USA) e Nizar Ibrahim (Germania-Marocco), ha una importante componente italiana: Cristiano Dal Sasso, Simone Maganuco, Davide Bonadonna e Marco Auditore.
Tutto sarà rivelato da qui ad un mese: abbiate pazienza, ma ci sono buoni motivi per pensare che Spinosaurus sia molto più straordinario di quanto solitamente viene immaginato.

05 agosto 2014

A cosa serve quello che facciamo?


Anche se è improbabile che il lettore medio di questo blog mi ponga questo tipo di domanda, ed anche se nessuno finora mi ha mai posto questo interrogativo, ogni volta che qualche mia ricerca riceve un riscontro mediatico, come nel caso del recente articolo sull'evoluzione dimensionale lungo lo stelo-aviano, io mi immedesimo nel fantomatico “uomo qualunque” e mi domando: a cosa serve quello che facciamo? Ovvero, a cosa “serve”, in termini di utilità sociale, la paleontologia dei dinosauri? Cosa porta questa disciplina alla maggioranza del genere umano, quasi del tutto fuori dal nostro circolo di appassionati e ricercatori? Dopo tutto, una ricerca pubblicata su riviste di ampio livello, lette non solo dai paleontologi, implica che quella scoperta, in qualche modo, debba avere delle implicazioni e ricadute “universali”. Di che tipo?
Altri prima di me hanno formulato la domanda – in vari modi – e si sono dati una qualche risposta. In molti casi, ho letto risposte secondo cui la paleontologia dei dinosauri “fornisce informazioni sul posto dell'uomo nella storia naturale” oppure che “avvicina i giovani alla scienza”, ed altre risposte che identificherebbero una qualche “utilità sociale” nella nostra ricerca paleontologica concentrata sui dinosauri.

Penso che, in maggioranza, quelle risposte siano ridicole.
Trovo che sia ridicolo pensare (e scrivere) che la paleontologia dei dinosauri sia perseguita per rispondere a domande esistenziali come “il posto dell'uomo nella Natura”. Quel genere di domande esistenziali, ammesso che abbiano senso, sono semmai perseguite dall'antropologia, non dalla paleontologia dei dinosauri. Nessun paleontologo dei dinosauri cerca fossili, fa analisi, pubblica studi, con il motivo recondito di rispondere a quella domanda. Inoltre, nessuno di noi fa ricerca paleontologica perché così facendo avvicinerebbe i giovani alla scienza. Non mi risulta che la paleontologia nasca con un intento cripto-pedagogico. Inoltre, assumere che i dinosauri “servano” alla causa della scienza (per i giovani) ridurrebbe la disciplina ad un “cavallo di Troia” per bambini. Quanti di noi vorrebbero dedicare la loro vita a creare feticci con cui plagiare i giovani in modo così subdolo? In ogni caso, l'esperienza mi mostra che se un giovane è appassionato di scienza, lo sarà a prescindere dai dinosauri. La passione scientifica è ciò che avvicina i ragazzi ai dinosauri, non il contrario. E se la scienza non interessa, i dinosauri non funzioneranno da traino, come dimostra la proliferazione dei “dinosauri-mostri” nei videogiochi, nei film e nei fumetti, in cui di scientifico c'è ben poco. Un appassionato di mostri (dalla vaga forma di dinosauro) non diventerà uno scienziato a causa dei mostri. Inoltre, come spiegherò sotto, se davvero quello fosse il motivo recondito della nostra ricerca, e la causa trainante la passione scientifica dei giovani, ci troveremmo in una situazione veramente triste.

Penso che quelle risposte siano un (patetico?) tentativo di accontentare in qualche modo una domanda nascosta, una motivazione implicita più sottile di quella esplicita nelle domande elencate sopra.
Ovvero, ogni volta che qualcuno chiede “a cosa serva” una ricerca o scoperta paleontologica, implicitamente sta chiedendo “quanto denaro porta?”. La domanda sul “servizio” è quindi un'ipocrisia per nascondere una domanda sul “guadagno”.
Viviamo nell'Era del Dio Denaro. Misuriamo il valore delle persone in base al loro reddito, l'importanza delle nazioni in base al loro PIL o al “rating” calcolato dalle società finanziarie, e persino il destino di una specie animale è tarato in base al prezzo delle sue corna al mercato nero. Tutto è misurato col Denaro, al punto che potremmo dire che esso abbia sostituito l'Uomo nella massima su cosa sia la Misura di Tutte le Cose. Se qualcosa non è monetizzabile, è come se non esistesse.
Inevitabilmente, in un mondo che idolatra il denaro, per il quale milioni di persone si immolano e spesso al “prezzo” (quello vero) dell'esistenza, è inevitabile che ogni altra passione, interesse e attività debba essere “convertita” (sia nel senso economico che religioso). Perché “non avrai altro Dio all'infuori di Me”, evidentemente, è un precetto non solo del dio biblico, ma anche e sopratutto del dio pecuniario.

A coloro che (s)ragionano in quel modo, quindi, non risponderò con la loro stessa moneta. La paleontologia dei dinosauri viene perseguita per qualcosa di monetizzabile? No, la paleontologia dei dinosauri NON serve a niente che non sia la paleontologia dei dinosauri.
Qui è bene una precisazione, per non apparire ingenuo. Ovvio, come ogni altra attività umana, anche la paleontologia può avere delle ricadute extra-paleontologiche, può essere usata per un'attività economica o commerciale, può fungere da ispirazione e fonte di guadagno in emanazioni extra-scientifiche come la divulgazione, l'arte o il commercio. Ma la paleontologia dei dinosauri resta comunque auto-referenziale. Noi facciamo scienza per la scienza, per accrescere la conoscenza, per imparare di più sui dinosauri. Non facciamo ricerca per altri motivi, perché altri motivi non esistono. Non è un caso, infatti, che a fare paleontologia non si diventi ricco.
Pertanto, evitiamo di abbassarci al livello di chi vuole tutto ridotto a denaro, guadagno e profitto, e non cadiamo nell'ipocrisia di cercare un qualche “motivo” socio-economico “popolare”: la ricerca paleontologica nasce e vive per una sola cosa, per la paleontologia, ovvero, “la conoscenza dei fossili”.

Siccome il discorso di qui sopra potrà sembrare retorico e naive, riformulo tutto sostituendo la mia passione (la paleontologia dei dinosauri) con una passione più popolare e diffusa: il gioco del calcio (football).
Qual'è lo scopo del calcio? Perché milioni di persone si appassionano alle partite di pallone, ai Mondiali di calcio, seguono la squadra del cuore, si disperano per un rigore, piangono come se quella rete fosse stata segnata da loro stessi? Perché il calcio è la loro passione. Lo so, il gioco del football fa girare miliardi di dollari, ed è per questo che è considerato più “utile” della paleontologia dei dinosauri. Ma, e non ho dubbi, la grandissima maggioranza delle persone appassionate di calcio non riceve nulla di “economicamente concreto” dal calcio, semmai, spesso perde tempo (e denaro) per quello sport senza ricavarne nulla indietro (in termini economici). Come la paleontologia dei dinosauri, la passione per il calcio nasce spesso nell'infanzia. La maggioranza dei paleontologi professionisti sono ex-bambini che hanno avuto la fortuna e la tenacia (e le capacità) di perseguire per anni nella loro passione, spesso con sacrifici e al prezzo di molte rinuncie. I calciatori professionisti sono il prodotto del medesimo fenomeno. La sola differenza tra paleontologia e calcio (aldilà del fatto che una sia una scienza ed una uno sport) è nel numero delle persone che le seguono e, di conseguenza, nella ricaduta socio-economica che le due passioni generano attorno a sé. Ma, nella sostanza “antropologica” profonda, sono figlie del medesimo impulso: una passione slegata da interessi economici.
Pertanto, chiedere ad un paleontologo per quale motivo faccia la sua ricerca è uguale a chiedere perché un calciatore faccia la sua partita: perché ama farlo, perché è lo scopo della sua esistenza, perché ciò lo realizza ed appaga. So benissimo che esistono dei calciatori pagati milioni di dollari, ma quelli sono la minoranza figlia benedetta dal Dio Denaro, l'inevitabile prodotto del mega-businness innestato da qualche decennio al corpo calcistico, ma non sono rappresentanti della maggioranza di coloro che amano e praticano il football in tutto il mondo.

La prossima volta che qualcuno vi chiederà cosa “porti” la scoperta del nuovo dinosauro all'umanità, rispondetegli che non porta nulla. Perché non deve portare altro se non conoscenza paleontologica. Esattamente come la vittoria di una coppa di calcio non “porta” nulla all'umanità, a parte, forse, un grande momento di sport, il cui significato è evidente per coloro che a quegli eventi attribuiscono un valore.


01 agosto 2014

Tempo e topologia per la filogenesi di Theropoda

Il nostro studio pubblicato ieri su Science (Lee et al. 2014) ha suscitato interesse e commenti.
In questo post, ripropongo la filogenesi di Theropoda che risulta dall'analisi del dataset principale del nostro studio – quello estratto da Megamatrice – ad una scala maggiore e con tutti i taxa indicati (per esigenze di spazio, nell'articolo su Science l'immagine è presente invece in forma semplificata).

Dato il modello di cladogenesi adottato, i taxa inclusi e le loro età geocronologica, questo è il diagramma tempo-tipologia (un cladogramma classico è invece un diagramma solo-tipologia) con la più alta probabilità di essere vero.



I valori sopra i rami indicano la probabilità a posteriori che tale clade sia vero dato il modello. Le età in milioni di anni dal presente sono indicate in basso. Per chi fosse poco pratico di età geocronologiche, il limite Trias-Giurassico è a circa 200 milioni di anni fa, il limite Giurassico-Cretacico è a circa 145 milioni di anni fa. I nodi sono collocati cronologicamente nella mediana della distribuzione delle età risultate dalle varie analisi.
Notare che l'analisi supporta la monofilia di un “Grande Ceratosauria” comprendente i coelophysoidi, e quindi una lunga radice triassica per Tetanurae. La linea che porta a Majungasaurus (Abelisauridae) si separa da quella di Limusaurus e Masiakasaurus (Noasauridae) intorno a 180 milioni di anni fa: questa età molto antica per gli abelisauridi è corroborata dall'età medio-Giurassica per Eoabelisaurus. Nei tetanuri, il nodo Orionides, da cui derivano megalosauroidi e neotetanuri, risale alla base del Giurassico: ciò è compatibile con una generale radiazione adattativa successiva all'estizione di fine Triassico, in questo caso, forse, favorita dalla liberazione di nicchie superpredatorie dopo l'estinzione degli pseudosuchi non-crocodylomorfi di grado rauisuco.
Tra 180 e 170 milioni di anni fa avviene quello che io chiamo il “Big Bang di Tetanurae”, l'improvvisa comparsa nel record fossile di forme basali di allosauroidi, tyrannosauroidi, alvarezsauroidi e paraviani che, di conseguenza, implica anche la comparsa di forme basali di ornithomimosauri, therizinosauroidi e oviraptorosauri. Sebbene questo “Big Bang” possa essere un artefatto della scarsa documentazione nel Giurassico Inferiore, è improbabile che questa serie di cladogenesi sia comunque arretrata a prima del Giurassico: pur diluita in ulteriori 20 milioni di anni, questa fase di cladogenesi resta molto rapida.
Risultato originale, che non mi risulta sia stato proposto in precedenza, è il nodo “Alvarezsauroidea + Therizinosauria”. Tuttavia, la sua probabilità è moderata (77%), quindi potrebbe essere un artefatto del campionamento tassonomico.
Come nell'analisi per Aurornis, Troodontidae risulta sister-taxon di Avialae. A differenza di quello studio, tuttavia, Eosinopteryx non è un paraviano basale, così come Scansoriopterygidae è collocato in Avialae e più derivato dei taxa di “grado archaeopterygide”. Rahonavis risulta un Jeholornithidae derivato. Come nell'analisi di massima parsimonia per lo studio su Anchiornis, Balaur è confermato un Avialae anche secondo questa analisi bayesiana, sebbene la combinazione omoplastica di caratteri presente nel taxon rumeno renda quel nodo moderatamente robusto.

Bibliografia: