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23 settembre 2023

Dakotaraptor non esiste [AGGIORNAMENTO]

 

Esiste un dromaeosauride gigante nella Formazione Hell Creek? (Artwork by E. Willoughby)

Dakotaraptor è un taxon di theropode istituito su materiale dalla Formazione Hell Creek (fine Cretacico del Nord America). Inizialmente definito come un nuovo dromaeosauride gigante, questo genere è oggetto di controversie, specialmente online, dopo che è stato dimostrato che il materiale olotipico (che definisce la specie) contiene ossa di più animali diversi, in particolare, oltre a ossa sicuramente di dinosauro, anche ossa di tartaruga che furono erroneamente considerate furcule di theropode.

La presenza di ossa non-theropodi nell'assemblaggio olotipo non sarebbe in teoria un problema insormontabile per la validità di Dakotaraptor, fintanto che si dimostri che il rimanente materiale sia di Theropoda e sia diagnosticabile. Ho discusso in passato questa opzione. Online, molti continuano a considerare Dakotaraptor legittimo perché, comunque, questo materiale - per quanto chimerico - conterrebbe al suo interno ossa genuine chiaramente attribuibili ad un grande dromaeosauride, che quindi deve appartenere ad una specie valida (anche se non necessariamente un nuovo genere).

Tuttavia, riguardando tutto il materiale pubblicato di Dakotaraptor, penso che questa certezza sullo status dromaeosauride di queste ossa sia da rivedere.

In particolare, e questo è molto importante al fine di definire Dakotaraptor come un genere di dromaeosauride valido, le ossa più spesso citate come "sicuramente di dromaeosauride" potrebbero non essere tali.

Due elementi dell'assemblaggio olotipico sono stati invocati per "salvare" Dakotaraptor: le vertebre caudali ed il grande ungueale falciforme.

Partiamo dalle caudali. Esse sono incomplete e ampiamente ricostruite. Per giunta, le uniche immagini disponibili sono a bassa risoluzione ed in sola norma laterale. Anche se a prima vista queste vertebre possono ricordare i dromaeosauridi, esse possono ugualmente essere attribuite ad un ornithomimide. Difatti, non essendo complete, non siamo sicuri che in origine avessero le zigapofisi ipertrofiche diagnostiche di Eudromaeosauria. Anche se non voglio cavillare sui dettagli delle scarse foto disponibili, è interessante constatare che una delle vertebre caudali illustrate abbia la base preservata delle prezigapofisi che ricorda più un Ornithomimidae che un Dromaeosauridae (asterisco rosso nella immagine qui sotto) sia come estensione prossimale che come inclinazione. Se ciò fosse confermato, dimostrerebbe che la coda di Dakotaraptor appartiene ad un ornithomimide.



Passiamo agli ungueali attribuiti a Dakotaraptor

Gli autori di Dakotaraptor attribuiscono un grande ungueale incluso nel materiale al secondo dito del piede. I motivi di tale attribuzione a Dromaeosauridae sono la forma falciforme ed affilata, e l'asimmetria nella posizione del solco collaterale destro rispetto al sinistro.

Tuttavia, la sola forma "falciforme" non è sufficiente per riferire un ungueale di theropode non-aviano a Dromaeosauridae. Ad esempio, la forma degli ungueali della mano di molti therizinosauridi è molto simile a quella del secondo dito del piede, diagnostico di Dromaeosauridae. Nell'immagine sotto, ho confrontato il secondo ungueale del piede di Utahraptor con un ungueale della mano del therizinosauride Nothronychus: entrambi sono falciformi, affilati e con un solco collaterale che raggiunge il margine dorsale (linea rossa). Pertanto, questi elementi, da soli, non sono condizione sufficiente per riferire un ungueale a Dromaeosauridae.

Inoltre, nonostante gli autori sostengano che i tracciati dei solchi collaterali dell'unguale di Dakotaraptor siano asimmetrici (carattere tipico degli eudromaeosauri), in realtà quando si sovrappone il lato destro al sinistro i due solchi sono simmetrici (linea gialla e bianca nella fila centrale dell'immagine sotto). Ovvero, dobbiamo concludere che l'ungueale di Dakotaraptor non ha alcun carattere che sancisca in modo inequivocabile che esso sia effettivamente dal piede di un dromaeosauride. Difatti, esso potrebbe anche appartenere alla mano di un Therizinosauridae.

Prima di arrivare alle conclusioni, è significativo anche notare che l'altro ungueale, attribuito al terzo dito del piede, sia molto bizzarro per un Dromaeosauridae. Gli stessi autori di Dakotaraptor lo notano, e lo includono nei caratteri diagnostici della specie. Tuttavia, questo ungueale è bizzarro solo se lo si considera di Dromaeosauridae. Ma se lo si riferisce ad Ornithomimidae, esso è un classico ungueale del piede con molte similitudini con questo clade, e nessuna con l'omologo ungueale in Dromaeosauridae (frecce rosse nella terza fila in basso nella figura sotto). Quindi, ho il sospetto che anche il terzo ungueale del piede del materiale di Dakotaraptor appartenga ad un Ornithomimidae (ed è intrigante che, come con le caudali appena citate, esso possa appartenere ad un ornithomimide).


Concludendo, i due elementi considerati più solidi a sostegno di uno status dromaeosauride per Dakotaraptor non sono così solidi come sembra. Le caudali potrebbero anche essere di Ornithomimidae, e l'unguale potrebbe anche essere della mano di un therizinosauro. Dato che l'altro ungueale è chiaramente quello del piede di un Ornithomimidae, tutto concorda a considerare il materiale di Dakotaraptor una complicata chimera formata dalle ossa di più animali (almeno 2-3 theropodi distinti + una tartaruga).

Pertanto, mancando la certezza che questi elementi appartengano ad un dromaeosauride, non disponendo di elementi a cui definire lo status di olotipo, e mancando caratteri diagnostici validi, si deve concludere che Dakotaraptor non esiste.


AGGIORNAMENTO:

Ho identificato un ulteriore elemento a sostegno della tesi che "Dakotaraptor" sia una chimera. L'unico elemento potenzialmente diagnostico di questo dinosauro (indipendentemente dalla sua collocazione in Dromaeosauridae) è la presenza di un margine prossimale della cresta fibulare della tibia che assume una forma "uncinata". Questo uncino deriva dalla ossificazione del legamento che univa tibia e fibula. Lo stesso "uncino" si osserva anche in alcuni oviraptorosauri caenagnathidi. Pertanto, è plausible che la tibia di Dakotaraptor appartenga ad un grosso caenagnathide (ad esempio, Anzu, sempre dalla Formazione Hell Creek). 

Penso non ci siano più dubbi che questo dinosauro "non esista" realmente ma sia solo una chimera ricavata da un bonebed multispecifico.

La tibia di "Dakotaraptor" è riferibile ad un Caenagnathidae: la cresta fibulare uncinata (asterisco) è assente nei dromaeosauridi ma è presente in questi oviraptorosauri.


21 settembre 2023

Il colore del cielo al tempo dei dinosauri

 

Opera di Z. Burian

La paleoarte ci ha abituati a "viaggiare nel tempo", anche solo con l'immaginazione. Mondi Perduti popolati da faune grottesche ed "aliene" sono il pane quotidiano dell'appassionato fruitore di paleoarte. Tuttavia, è bene ricordare che queste opere non sono "fotografie" del passato, non sono il prodotto della osservazione diretta dell'autore, ma sono una proiezione elaborata dalla sua mente (o dalla mente dei paleontologi consultati per realizzare l'opera). Se l'artista omette un elemento della rappresentazione, tale elemento sarà assente. Se l'autore dà per scontato un certo elemento e lo include (più o meno consciamente), quell'elemento sarà presente nella iconografia del passato. Ciò implica che l'immagine che noi spettatori costruiamo nella nostra mente a partire dalla paleoarte è fortemente influenzata dalla immagine che il paleoartista (ed i paleontologi) hanno costruito nella loro testa. 

Il soggetto principale delle opere di paleoarte è quasi sempre una o più specie animali. A volte, anche la flora è protagonista e non solamente un mero sfondo nella rappresentazione. Ma cosa dire dello sfondo vero e proprio? Ovvero, come si deve rappresentare il cielo nella paleoarte? La domanda potrebbe sembrare futile, dato che il cielo del passato si presume sia lo stesso cielo di oggi. Ma non è così. L'atmosfera terrestre non è un contenitore passivo e statico, ma al contrario, è l'elemento più dinamico e variabile del "Sistema Terra", come sperimentiamo ogni giorno in cui siamo in balia del meteo.

Un elemento che diamo per scontato è il colore del cielo. Nero di notte, azzurro di giorno, grigio nelle giornate nuvolose, rosso e dorato all'alba ed al tramonto. Il colore del cielo è un effetto della combinazione di due elementi: l'inclinazione dei raggi solari rispetto al nostro occhio (ovvero, il momento della giornata in cui guardiamo il cielo) e la composizione dell'atmosfera. Un terzo elemento, il tipo di radiazione proveniente dal sole, per semplicità daremo per scontato che sia stata più o meno sempre la stessa, almeno nell'ultimo paio di miliardi di anni.

L'inclinazione dei raggi solari varia, ovviamente, nell'arco della giornata, legata alla rotazione solare. Il mezzo aereo tende sempre a diffondere la luce che lo attraversa, e questo processo di diffusione favorisce la zona di lunghezze d'onda che chiamiamo "celeste" (proprio perché dà il colore al cielo) rispetto alle altre. Ciò spiega come mai il colore "tipico" del cielo in pieno giorno sia azzurro. Quando i raggi sono relativamente bassi (come all'alba ed al tramonto), la luce solare che raggiunge i nostri occhi deve attraversare una fascia di atmosfera più spessa, e risulta maggiormente dispersa, in particolare nelle bande di colore a lunghezza d'onda maggiore (blu e viola): il risultato è un cielo che ci appare più carico nelle tonalità giallo-rossastro. 

Se il colore apparente del cielo è legato all'inclinazione dei raggi solari, può la variazione dell'asse di rotazione terrestre incidere sul colore del cielo? Il pianeta subisce delle oscillazioni nei suoi parametri orbitali che variano lievemente alla scala delle decine di migliaia di anni. Ogni 40 mila anni circa, l'asse di rotazione terrestre varia la propria inclinazione rispetto al piano dell'orbita attorno al Sole di circa un paio di gradi. Una tale variazione non incide significativamente sul colore del cielo, quindi è trascurabile.

Pertanto, alla fine, l'unico vero elemento che incide sul colore del cielo (a parte le variazioni giornaliere e legate al meteo) è la composizione dell'atmosfera.

Più densa è l'atmosfera e maggiori saranno gli attori in grado di disperdere/diffondere la luce nelle sue varie lunghezze d'onda. Non occorre che l'atmosfera sia particolarmente densa per aver un colore, come dimostra Marte, la cui atmosfera, ben più rarefatta di quella terrestre, ha comunque un colore caratteristico legato alla sua composizione. Composizione che, fondamentalmente, dipende dall'ossigeno, dal vapore acqueo e dal pulviscolo. L'azoto non è un attore rilevante in questo discorso. L'anidride carbonica è trasparente alla luce visibile, ed impatta principalmente (come ben sappiamo, ormai) sull'infrarosso (e quindi, sul calore dell'atmosfera, non sul colore).

La variazione dell'ossigeno atmosferico nel passato geologico è stimabile dall'analisi geochimica di varie rocce sedimentarie. Si ritiene che in origine, la sua abbondanza in atmosfera fosse quasi nulla, e che sia andato aumentando in particolare durante l'ultimo mezzo miliardo di anni. In questo intervallo di tempo, la variazione della concentrazione dell'ossigeno più significativa rispetto ad oggi è ipotizzata alla fine del Paleozoico, in particolare nel Carbonifero (300 milioni di anni fa), con valori di concentrazione fino ad una volta e mezzo quelli attuali. Ciò deve aver inciso in modo significativo sul colore del cielo, aumentando la dispersione delle lunghezze d'onda a vantaggio dell'azzurro (di giorno) e dei rossi (all'alba ed al tramonto). Possiamo immaginare che il cielo nel Carbonifero fosse "più azzurro" (ovvero, più saturo di tale gamma di colore) rispetto ad oggi?

Il vapore acqueo è maggiormente legato alle dinamiche climatiche e metereologiche, e quindi è ragionevole che nel passato abbia inciso sul colore del cielo alla pari di oggi, sotto forma di nubi, foschie e nebbie. Forse, durante le fasi di clima umido (come l'Evento Pluviale Carnico, a metà del Triassico Superiore), il cielo era in qualche modo più grigio e triste, più "autunnale" rispetto ad altri momenti della storia planetaria?

Un altro elemento, in parte legato indirettamente all'ossigeno, è la quantità di pulviscolo disperso in atmosfera. Un aumento del particolato difatti aumenta la dispersione della luce, a vantaggio delle tonalità giallo-rossastre. Tale aumento può essere dovuto ad attività vulcanica particolarmente intensa (ad esempio, nei periodi in cui sono attive delle Grandi Province Ignee, come i traps del Deccan di fine Cretacico) oppure come conseguenza di una elevata concentrazione di ossigeno atmosferico, che favorisce la combustione della materia organica, lo sviluppo di grandi incendi e la dispersione di fuliggine, come risulta da vari depositi sedimentari della seconda metà del Mesozoico. Durante buona parte del Cretacico, in molte zone del pianeta, la combinazione di clima relativamente arido, carico di polveri, e la maggiore frequenza degli incendi potrebbe aver prodotto un cielo più rosso-giallastro, dovuto alla maggiore sospensione di particolato?

Se combiniamo questi elementi, emerge un quadro (letteralmente) molto inquietante: i momenti della Storia della Vita durante i quali il cielo deve essere stato più meraviglioso, carico di tonalità azzurre e caratterizzato da albe e tramonti dai colori più accesi e vividi, sono probabilmente quelli durante i quali si sono svolte le maggiori estinzioni di massa.

La fine del Permiano, grazie all'elevata concentrazione dell'ossigeno e l'aumento del particolato emesso dai traps siberiani, deve essere stato un paradiso per qualunque pittore di paesaggi, ma un inferno per il resto dei viventi, sottoposti alla più grande crisi biotica del Fanerozoico. Discorso analogo per la fine del Triassico e del Cretacico, durante l'attivazione di alcune Grandi Province Ignee, ritenute causa di due tra le maggiori estinzioni di massa. 

19 settembre 2023

Il nuovo dromaeosauride gigante asiatico è un dromaeosauride gigante?

 

Il materiale descritto da Yang et al. (2023), a sinistra, confrontato con il piede di Erlikosaurus (a destra, da Barsbold e Perle, 1980).

Yang et al. (2023) descrivono due falangi di theropode dal Cretacico Superiore della Cina. Gli autori interpretano il materiale come una falange del secondo dito del piede ed un ungueale della mano, entrambi riferibili ad un eudromaeosauro gigante.

Sono molto scettico verso questa ipotesi.

Il materiale descritto dagli autori non mi ricorda i dromaeosauridi. L'unguale è troppo affilato e stretto in vista dorsale, troppo ampio alla base e poco incurvato ventralmente, ha un tubercolo flessorio basso e una marcata espansione trasversale della faccetta articolare. Inoltre, presenza un solco collaterale che si biforca prossimalmente. Tutte queste caratteristiche richiamano i therizinosauridi, non i dromaeosauridi. 

La falange non-ungueale è indistinguibile dalle falangi distali del piede dei therizinosauridi.

Pertanto, la interpretazione più parsimoniosa è che queste due falangi appartengano al piede di un therizinosauride. 



18 settembre 2023

L'eredità di Jurassic Park




In questi giorni, è il trentennale della uscita nella sale cinematografiche italiane del film “Jurassic Park”. Io sono sufficientemente vecchio per ricordare come era il mondo della paleontologia prima di Jurassic Park, poiché nel 1993 ero un adolescente appassionato di fossili e scienza, quindi il target predestinato per la “dinomania” commerciale di quegli anni. Inoltre, da metà del tempo trascorso da allora sono anche gestore di un blog che spesso ha parlato di Jurassic Park e del suo impatto mediatico, in particolare nel plasmare (o trasfigurare) concezioni paleontologiche a livello popolare.

So che molti “addetti ai lavori” nel mondo dinosaurologico hanno espresso commenti, rievocato esperienze personali, e formulato bilanci sull'eredità di Jurassic Park. In questo post, io non mi accodo al (rispettabilissimo) filone agiografico e intimista dentro cui la maggioranza delle testimonianze ha dipinto Jurassic Park come un momento di epifania personale. L'eredità di un prodotto culturale non si misura dalle singole esperienze personali (sovente sovraccariche di retorica emotiva), ma analizzando lucidamente (e distaccatamente) le ricadute a larga scala di un successo cinematografico planetario (sì, c'è anche il romanzo, ma il grosso delle ricadute mediatiche popolari è stato prodotto dal film) su una intera generazione nata e cresciuta dopo il film.

Che ci piaccia o no, Jurassic Park ha influenzato un'intera generazione. L'impatto del film non si limita alla piccola cerchia di appassionati e paleontologi, perché se così fosse non avrebbe senso rievocare tale evento mediatico 30 anni dopo. Quando dico “influenzare” intendo che per la grande maggioranza nata e cresciuta dopo il 1993, è praticamente impossibile pensare ai dinosauri “fuori” dal mondo di Jurassic Park. Sì, sono sicuro che tu che stai leggendo sei un vero appassionato di dinosauri e che penserai che questa frase non si applica a te. Tu hai sicuramente letto e studiato tanti libri di paleontologia, e forse sei persino un giovane paleontologo professionista. Ma ti sbagli a pensare che Jurassic Park non influenzi anche te. Ma prima di arrivare a te, ti ricordo che in questo contesto tu non sei “la persona media” bensì un caso eccezionale (ma che conferma la regola) che non fa testo per dedurre una tendenza generale. Nella grandissima maggioranza dei casi, quando una persona a caso è invitata a parlare di o pensare ai dinosauri, i suoi pensieri e parole sono invariabilmente filtrati ed elaborati alla luce della iconografia cinematografica spielberghiana. E da là non escono.

Oggi, è quasi impossibile pensare ai dinosauri fuori dalla logica di Jurassic Park. E persino quando si riesce a farlo, ciò avviene comunque come reazione, risposta, rigetto o riflusso dal “jurassic-park-pensiero”. Questo post ne è un esempio. Da questa prospettiva, Jurassic Park è una gigantesca gabbia concettuale, una isola per la mente, un vero parco virtuale recintato non con l'elettricità ma con potentissime icone alle quali tutti siamo assoggettati. Jurassic Park ha prodotto una iconografia che, per quanto del tutto particolare, soggettiva e ampiamente discutibile, è divenuta “oggettiva” e quindi “vera”, persino “sacra”.

La prova è data delle innumerevoli situazioni in cui mi sono trovato nelle quali ho dovuto spiegare al mio interlocutore perché “no, i dinosauri non erano come quelli di Jurassic Park” e le altrettanto numerose volte in cui la reazione dell'interlocutore a questa rivelazione è stata di costernazione, delusione, sconcerto, ostilità, fino al fanatico rifiuto. Jurassic Park ha incasellato l'immaginario paleontologico di milioni di persone, le quali non sanno nemmeno di essere ingabbiate dentro quella isola mentale. I “dinomaniaci” oggetto di tanti miei post non sono quindi dei casi patologici marginali, bensì solo la forma più estrema di un fenomeno generazionale di ampia scala, che coinvolge praticamente tutti dal 1993 ad oggi.

Prendete uno spot pubblicitario su un prodotto non legato alla paleontologia: se nello spot è incluso un dinosauro, nella maggioranza dei casi esso è ricalcato più o meno ottusamente sulla iconografia di Jurassic Park. I dinosauri “in vivo”, in quanto iconografia delle specie estinte, sono irrimediabilmente quelli di Jurassic Park, e non importa se noi quattro addetti ai lavori e voi otto appassionati conosciamo a menadito la enorme quantità di evidenze e informazioni accumulate negli ultimi 30 anni e siamo consapevoli di come queste abbiano sostanzialmente falsificato gran parte dei dettagli inclusi nelle icone di Jurassic Park: queste ultime vincono perché sono ormai profondamente innestate nella mente della collettività. E tale processo di innesto radicato è anche esso un prodotto di Jurassic Park.

Come si sono imposti i dinosauri di Spielberg (ed il film)? Mostrandosi per la prima volta al mondo come iconografia iper-realistica mediata dalle (allora nuovissime e in parte sconosciute) tecniche di grafica computerizzata: in quel modo, i dinosauri di Jurassic Park hanno sbaragliato ogni oppositore, e demolito qualsiasi altra alternativa iconografica. I dinosauri del film, “più veri del vero”, hanno sbancato ai botteghini proprio perché la loro iper-realistica rappresentazione ha facilmente superato qualunque filtro e opposizione razionale dello spettatore. Più realistici di qualunque precedente rappresentazione, quindi “reali”, quindi, veri. Imponendosi senza più opposizione, le icone del film sono divenute “La” Iconografia dei dinosauri, l'unica possibile, la sola pensabile, quindi QUELLA VERA.

Questo processo di radicamento di una sola iconografia ha progressivamente eroso ogni opposizione critica, ha annacquato e sminuito qualsivoglia richiamo alla natura virtuale e soggettiva delle rappresentazioni del film, ed ha reso difficile uscire dalla gabbia iconografica auto-alimentata dal Franchise.

Se lo spettatore medio assume senza troppa critica che una icona iper-realistica è “quella ufficiale”, e ciò viene reiterato e moltiplicato dai sequel e da tutti i prodotti più o meno accodati alla iconografia del film, alla fine non esisterà nemmeno il concetto di “alternativa” a tale iconografia. Ciò spiega lo sconcerto e l'ostilità dello spettatore medio quando gli viene rivelato che le ricostruzioni di Jurassic Park non sono solo obsolete, ma erano soggettive e arbitrarie anche nel 1993.

Ricordo quando, a cavallo dell'anno 2000, furono scoperte le piume nei dromaeosauridi, scoperta che di fatto falsifica l'iconografia del celebre raptor di Jurassic Park. Oggi a noi ciò farebbe ridere, ma 15 anni fa non erano pochi i lettori del mio blog che ostinatamente volevano auto-convincersi che la scoperta di “raptor piumati” non implicasse che quelli “squamati” siano da abbandonare. E questa inerzia nell'accettare i fatti scientifici documentati si spiega solo con la difficoltà di scardinare l'iconografia di Jurassic Park dalla mente di chi è “cresciuto” con tale impostazione. Come può una immagine “più vera che vera” essere falsa? Perché dovrei abbandonare qualcosa di così realistico e vivo solo perché qualche stupido paleontologo dice che un fossile mostra qualcosa di diverso? Sì, a ripensare a questi episodi di oltre un decennio fa, si sorride bonariamente. Ma forse quel comportamento di rifiuto delle evidenze scientifiche non è lo stesso tipo di reazione emotiva che guida in questi giorni i vari sostenitori del “T-rex senza labbra”, palese figlio di Jurassic Park? Non sto qui affrontando il dibattito sulle labbra sul piano tecnico, ma analizzo la reazione di chi, senza essere un anatomista comparato, pare comunque sentirsi legittimato a criticare delle ricerche tecniche al fine di “salvaguardare” una certa iconografia, guarda caso proprio quella di Jurassic Park. Dopo tutto, le labbra in Tyrannosaurus erano una iconografia scientificamente fondata esistente ben prima del 1993, e la rimozione delle labbra avvenuta nella ricostruzione di questo dinosauro è proprio parte della iconografia ufficiale di Jurassic Park: possibile che l'ostilità ad ammettere un “ripristino” delle labbra in questi dinosauri carnivori sia proprio legata alla difficoltà ad abbandonare l'iconografia spielberghiana?

Forse, tu che stai leggendo pensi di non rientrare tra i casi a cui ho fatto riferimento in questa analisi, perché, in fondo, tu non sei lo “spettatore medio”, non sei un passivo fruitore di icone, perché conosci la letteratura paleontologica e forse sei persino un paleontologo che fa ricerca. Non illuderti: anche tu sei ingabbiato dentro Jurassic Park!

Ti faccio una domanda a risposta secca, immediata, a cui rispondere in modo istintivo: come ti immagini un documentario sui dinosauri? Se la prima cosa che hai immaginato nella tua testa è stato qualcosa come “Prehistoric Planet” oppure “Walking with Dinosaurs”, allora sei anche tu un felice e mansueto suddito di Isla Nublar. Se la prima immagine che il tuo cervello ha prodotto alla parola “documentario” equivale ad una scena in grafica computerizzata in cui dinosauri iper-realistici interagiscono in modo (apparentemente) etologico in un contesto naturale, allora significa che nella tua testa la parola “documentario” è un sinonimo di “filmato alla Jurassic Park”. E ciò avviene solo perché Jurassic Park ha plagiato anche il tuo modo di concepire un qualunque sistema di divulgazione della paleontologia dei dinosauri.

Non si può fuggire da Jurassic Park.

Non sei ancora convinto?

Andiamo allora alla radice del problema. Domandiamoci quale sia lo scopo della paleontologia. Se la tua risposta è “ricostruire la vita e l'aspetto delle specie estinte”, stai sbagliando. Lo scopo della paleontologia è un altro, ed è interpretare la documentazione fossile. No, non sono due modi per dire la stessa cosa. C'è un baratro concettuale che li divide. Per quanto ti possa apparire assurdo, non sempre il lavoro del paleontologo ha come obiettivo quello di “ricostruire la vita del passato”. Nella maggioranza dei casi, il paleontologo cerca di capire perché un fossile esiste, e ciò spesso ha quasi nulla a che vedere con come fosse la vita dell'organismo da cui quel fossile ha tratto la propria forma biologica. Non sempre il paleontologo lavora per “riportare in vita i dinosauri” (anche solo concettualmente). Eppure, quello di “riportare in vita i dinosauri” è proprio il grande pregio di Jurassic Park. Il concetto stesso di Jurassic Park è che i dinosauri non sono estinti del tutto, ma che se si lavora sodo, i dinosauri possono tornare a vivere, anche solo come iconografie iper-realistiche. L'idea, oggi “mainstream”, di ricreare i dinosauri, anche solo virtualmente, è figlia di Jurassic Park. Prima del 1993, nessuno pensava seriamente che questo fosse un obiettivo intelligente di una persona adulta. Già il perder tempo a studiare rocce è considerato ridicolo dalla maggioranza delle persone serie, immaginatevi quello di “ridare vita” a queste rocce... Sì, so benissimo che anche prima del 1993 avevamo già i modelli anatomici, le ricostruzioni in vivo ed i paleoartisti, ma non avevano quel peso e quella rilevanza mediatica che hanno oggi. Oggi è praticamente impossibile immaginare di pubblicare una ricerca paleontologica senza corredarla di qualche “ricostruzione”. Il pubblico post-Jurassic Park la chiede, anzi, la pretende! Prima che qualche fanatico della paleoarte inizi a bestemmiare contro la mia iconoclastia (palesando la classica reazione emotiva da dinomaniaco), preciso che io qui non sto dando un giudizio morale di questo cambio di paradigma, non sto dicendo che “era meglio prima”, sto solo constatando che dopo Jurassic Park l'aspetto iconografico e “ricostruttivo” ha assunto un peso che prima non aveva. E che questo cambio di paradigma ha indebolito la paleontologia – intesa come scienza dei fossili – e rafforzato una diversa idea del paleontologo come “investigatore della vita del passato”.

Questo ultimo elemento è, però, preoccupante, perché va oltre la paleoarte e il Franchise, e ha ricadute proprio sulla ricerca paleontologica. Se nemmeno i paleontologi possono fuggire da Jurassic Park, chi potrà pensare ai dinosauri in modo “scientifico” senza essere plagiato da quel mondo, dalle sue icone, dal suo modus operandi? Quante ipotesi, scenari, modelli, approcci e interpretazioni vengono inconsciamente scartati o evitati perché in qualche modo entrano in conflitto con la paleonto-logica alla Jurassic Park? Faccio solo tre esempi. Quanti ancora non riescono a realizzare che i diversi modelli anatomico-dimensionali dei dinosauri implicano diversi sistemi biomeccanici ed etologici, e non un solo singolo ed uniforme modello ricalcato sui dinosauri del film? Quanti ancora si ostinano a pensare che i dromaeosauridi siano terribili macchine di morte, perché così li dipinge il film? Quanti ancora non riescono a immaginare modelli eco-etologici alternativi a quelli della mucca lobotomizzata quando si riferiscono ai dinosauri non-predatori?

Ritengo un ultimo il problema più impattante di Jurassic Park: se una intera generazione di paleontologi non riesce a immaginare la paleontologia dei dinosauri fuori dal mondo di Jurassic Park (non solo il mondo iconografico, ma anche quello metodologico), come possiamo essere oggettivi e distaccati analisti della documentazione fossile?

Con questa domanda irrisolta, ma che penso sia importante porsi, chiudo questa analisi.

Ci siamo tutti dentro. Che ci piaccia o no. Tutti in qualche modo siamo plagiati da Jurassic Park. Nato con l'obiettivo legittimo di fare un enorme successo al botteghino, il film di Spielberg ha demolito gran parte della concezione popolare dei dinosauri e ha imposto la propria personale e del tutto arbitraria iconografia del Mesozoico, in modi e con mezzi di tale potenza che, ancora oggi, spesso in modo non del tutto consapevole, noi dobbiamo fare i conti con tale successo. Ma, soprattutto, Jurassic Park ha eroso l'idea che la paleontologia sia una analisi scientifica della documentazione fossile, innestando in una intera generazione il feticcio che si possa “riportare in vita i dinosauri”.

No, non si può riportare in vita i dinosauri, e per quanto avvincente possa sembrare tale obiettivo se visto dal filtro del cinema, esso non è nemmeno lo scopo della paleontologia.

In quella illusione tanto falsa quanto ammaliante sta il bilancio finale sulla eredità di Jurassic Park.

14 settembre 2023

Considerazioni (poco) paleontologiche sull'alieno messicano

 

Screenshot dalla homepage del sito di uno dei principali quotidiani nazionali [la scritta in rosso è mia, ovviamente]


Sì, lo so, sono un paleontologo, quindi dovrei occuparmi di specie estinte, e non di UFO e alieni. E difatti, il post di oggi è dedicato proprio ad una specie estinta, una specie una volta diffusa su questo pianeta, e la cui scomparsa ha portato alla crisi globale in cui stiamo vivendo: il Giornalismo Serio.

C'era una volta il giornalista serio, anzi, il giornalista vero. Diciamo pure, il giornalista. Il mestiere del giornalista era di scoprire i fatti e raccontare la verità. Il giornalista vero, pilastro fondamentale dello stato di diritto in qualunque società liberale e democratica, inflessibile di fronte ai potenti, guidato solo dalla volontà di essere onesto e rigoroso di fronte ai suoi lettori.

Oggi, il giornalista serio, vero, senza aggettivi, è scomparso. Si è estinto. Al suo posto c'è il raccoglitore di like, il gretto cacciatore di sensazionalismo, il bastone da passeggio della demagogia. A questo nuovo mestierante della comunicazione, al quale fatico a dare il nome di "giornalista", non interessa la verità, non sta a cuore conoscere i fatti, né tanto meno gli importa di informare il lettore.

Un giornalista serio, di fronte alla palese buffonata che si è celebrata al Parlamento messicano, in cui è stato presentato un "alieno mummificato", avrebbe indagato per capire come sia possibile che in un parlamento nazionale ci sia spazio per una pagliacciata tanto ridicola. Invece no, il giornalista 2.0 ti sbatte la panzana in prima pagina, la correda di titolone acchiappa-like e la chiude con il virgolettato attribuito ad un "esperto" (esperto in cosa? in UFO?), un virgolettato talmente vago, banale e fuorviante da rasentare il patetico. Il giornalista vero si domanderebbe come sia possibile che una scoperta del genere - se fosse vera - sia pubblicizzata in una sede politica (il Parlamento del Messico) piuttosto che in una sede scientifica di primissimo livello, si chiederebbe (e ci imporrebbe di chiederci) come sia possibile che una tale scoperta - se fosse vera - non sia sulla copertina delle principali riviste scientifiche mondiali. 

Ma veramente, possiamo credere che la scoperta di una mummia aliena vera e genuina non sia stata contemporaneamente oggetto di un intero numero speciale delle riviste Nature e Science? Ma veramente, possiamo credere che una mummia di una specie intelligente extraterrestre non sia la scoperta scientifica del secolo, e quindi non sia presentata alla sede centrale dell'ONU in collaborazione con le maggiori università mondiali? Ma possiamo credere che, piuttosto, tale scoperta sia presentata da un perfetto sconosciuto che parla da un parlamento nazionale? Da quando un parlamento è divenuto la sede istituzionale per le scoperte scientifiche?

Inutile sottolineare che tutti gli zoologi del mondo si stanno divertendo a identificare le specie di mammifero messicane utilizzate per assemblare lo "scheletro" dell'alieno mostrato da alcune radiografie incluse nella "conferenza stampa". Inutile sottolineare che gli scienziati del Messico si stanno vergognando in tutte le sedi per il comportamento del loro parlamento che partecipa a questa pagliacciata (e noi siamo solidali con gli scienziati messicani, vittime di questa sceneggiata).

Inutile sottolineare che questa non è una "notizia" che meriterebbe una tale enfasi. Qui, di "notizia" c'è solo il fatto che un Parlamento nazionale sia stato coinvolto in una pagliacciata. Non ci sono UFO, né alieni, ma solo cialtroni e buffoni. In primo luogo, i giornalisti che non fanno il loro lavoro ma danno voce alla buffonata degna di siti internet di terzo livello.