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10 agosto 2010

Addio al “Coccodrillo di Portomaggiore”


Per la prima volta, un'immagine che mostra assieme le quattro lastre che compongono il "coccodrillo di Portomaggiore". In alto, le due lastre di Bologna; in basso, le due lastre di Ferrara. (Foto di A. Pirondini)

Questo è l’ultimo post dedicato al “Coccodrillo di Portomaggiore”. L’ultimo perché, dal prossimo di questa serie “coccodrillesca”, il fossile potrà essere chiamato col suo nome scientifico ufficiale. Prima di ciò, è bene che ripercorriamo la storia di questo fossile, così che potrete apprezzare appieno l’appassionante ricerca che, negli ultimi 12 mesi, ha coinvolto me, Federico Fanti ed alcuni amici, tra cui merita una menzione speciale Andrea Pirondini.

La nostra storia inizia nel Tempo Profondo, in un istante infinitesimo del Giurassico, circa 100 milioni di anni prima della fine del Mesozoico (come disse Piero Angela, “c’è molta preistoria nella preistoria”).
In un punto imprecisato del margine centro-meridionale dell’Oceano di Tetide, la carcassa di un rettile marino si adagia sul fondo. In breve tempo, il sedimento marino la ingloba, proteggendola dalla completa distruzione che accade alla maggioranza delle carcasse in fondo al mare.

Il tempo scorre. Un tempo lunghissimo, che nessuno di noi può nemmeno concepire, se non sotto forma di metafore.

Il resto della nostra storia si situa nel tempo dell’Uomo, ed è scandito in anni, mesi, giorni e secondi.
Siamo nel Nord Italia, per essere precisi in Veneto, nella provincia di Verona. Siamo a metà degli anni ’50 del XX secolo. In una punto imprecisato, prossimo al paese di Sant’Ambrogio di Valpolicella, una squadra di cavatori estrae dal fianco roccioso della montagna un blocco di “ammonitico giallo”, una qualità non particolarmente pregiata di marmo, utilizzato principalmente per la pavimentazione. Il blocco viene trasportato a Portomaggiore, in provincia di Ferrara, in Emilia Romagna. Qui, presso l’azienda della famiglia Pasini, specializzata nel taglio industriale del marmo, il blocco inizia ad essere sezionato in lastre ampie un paio di metri e dello spessore di circa 2-4 cm. Durante la procedura di taglio, il sig. Pasini nota che l’interno delle lastre presenta delle strutture allungate, grigio-biancastre che spiccano rispetto al colore giallo-ocra, tipico di quel marmo: ossa fossili di un grande animale.
Le lastre furono segnalate alla Sopraintendenza alle Antichità dell’Emilia Romagna e depositate nel Museo Geopaleontologico dell’Università di Ferrara (oggi, Museo “Piero Leonardi”), e presentate nel settembre 1955 durante la riunione della Società Geologica Italiana. L’anno successivo, Leonardi (1956) pubblicherà la prima descrizione preliminare del reperto, identificato come un coccodrillo, probabilmente metriorinchide, del Giurassico Medio. Sarà in questa breve nota che il fossile prenderà il nome di “coccodrillo di Portomaggiore”.
Alcuni anni dopo, metà del reperto (due lastre sulle quattro originarie) fu acquistato dal Museo “Giovanni Capellini” di Bologna, dove è esposto tuttora.
Per circa venti anni, il reperto non fu più citato né studiato.
Il “coccodrillo di Portomaggiore” è nuovamente citato, in forma schematica, da Kotsakis & Nicosia (1980) all’interno di un ampio volume sulla paleontologia dei vertebrati italiana. Kotsakis e Nicosia (1980) riprendono sostanzialmente l’interpretazione di Leonardi (1980), con due aggiunte: essi attribuiscono l’esemplare al genere Metriorhynchus, e lo collocano cronologicamente all’inizio del Giurassico Superiore (nel piano Oxfordiano).
Un’analoga interpretazione è quella citata da Bizzarini (1996), che riprende sostanzialmente l’interpretazione di Kotsakis & Nicosia (1980).
La prima citazione non-italiana del reperto è ad opera di Vignaud (1995), il quale, nella sua tesi di dottorato sui Thalattosuchi, attribuisce l’esemplare alla specie Metriorhynchus brachyrhynchus.
Finora, tutte le attribuzioni del “coccodrillo di Portomaggiore” citate seguivano l’approccio pre-cladistico, il quale, spesso, tendeva ad attribuire un fossile sulla base di caratteristiche anatomiche senza stabilire la gerarchia filogenetica di questi caratteri, ovvero, senza una analisi filogenetica che collocasse il fossile in un contesto dinamico con le altre forme note. Ciò, alla luce delle attuali concezioni tassonomiche, rende tali attribuzioni alquanto labili, sopratutto in contesti evolutivi. Dobbiamo attendere il 2009 per vedere la prima interpretazione cladistica del fossile. Ma prima di citarla, torniamo alla fine degli anni ’90 del XX secolo.

Nell’autunno del 1998 ero una giovane matricola universitaria a Parma. Assieme all’amico, compagno di corso e di paleo-ambizioni Simone “Spinosaurus” Maganuco, decisi di visitare per la prima volta il Museo Capellini di Bologna. Il nostro obiettivo primario era il calco di Diplodocus, ma ricordo di essere rimasto affascinato dalle due lastre del “Metriorhynchus” esposte in una sala minore del museo. Come avrò modo di spiegare, ogni lastra ha una colorazione veramente affascinante, accentuata dalla lucidatura effettuata sul lato in esposizione. Ricordo di essermi chiesto se qualcuno avesse mai studiato nel dettaglio quel fossile, o se, data la frammentarietà, non fosse possibile dire altro se non “è un metriorinco”. Non avrei mai immaginato che, più di 10 anni dopo, sarei stato io stesso a dare quella risposta. (O, forse, quella domanda rimase in gestazione nel mio inconscio, in attesa di essere professionalmente maturo, di essere diventato un Raider of the Lost Taxa in grado di dare una risposta significativa)
Il resto della storia è già stato citato in precedenti post (link alla fine del post).
Alla fine del 2008, decisi di iniziare una ricerca sulle due lastre esposte a Bologna, in collaborazione con Federico Fanti. Ricordo che in quelle primissime fasi della ricerca testai l’eventuale posizione filogenetica del reperto includendolo nell’analisi dei metriorinchoidi di Wilkinson et al. (2008) appena pubblicata. Il risultato dell’analisi mi convinse ad andare avanti: l’esemplare NON risultava essere un Metriorhynchus, bensì in una differente posizione nell’albero. Ma per esserne certi, occorreva studiare anche le due lastre a Ferrara.
Alcuni mesi successivi, un nuovo studio, molto più dettagliato, sui metriorinchidi (Young & Andrade, 2009) comprendeva, per la prima volta, il “coccodrillo di Portomaggiore” in un’analisi filogenetica. Inizialmente, ciò sembrò demoralizzarmi, dato che “ero stato battuto sul tempo”. Tuttavia, in realtà, quello studio fu per me la definitiva conferma che il fossile meritava di essere studiato e descritto con maggiore dettaglio rispetto alle precedenti pubblicazioni, ormai obsolete dal punto di vista metodologico: innanzitutto, la posizione filogenetica proposta da Young & Andrade (2009) era la stessa che avevo ottenuto io nel mio test iniziale. Da notare, l'analisi di Young & Andrade (2009) si era basata solo sulle lastre di Bologna e sulla breve descrizione di Leonardi (1956), e non comprendeva le lastre di Ferrara, né una valutazione del fossile aldilà di quanto osservato mezzo secolo prima. Tutto ciò pareva confermare che la mia ricerca stava andando nella giusta direzione. Citando il “coccodrillo di Portomaggiore”, Young & Andrade (2009) affermavano che qualsiasi ipotesi per il metriorinco italiano, compresa qualla citata nel loro studio, era da considerare preliminare, e che era necessario uno studio dettagliato ed approfondito del fossile prima di poter stabilire il suo status tassonomico.  Era esattamente ciò io che stavo facendo! Quel breve paragrafo in Young & Andrade (2009) pareva, per un perfetto caso di serendipità, alludere proprio a me! 
Il momento per la rivalutazione del fossile era quindi arrivato.

Ed è proprio della sua rivalutazione, e della pubblicazione scientifica scaturita da ciò, che dedicherò una dettagliata serie di post futuri (in preparazione).

Per chi fosse interessato alle precedenti puntate della serie sul coccodrillo di Portomaggiore:

Bibliografia:
Bizzarrini, F., 1996. Sui resti di coccodrillo del Rosso Ammonitico Veronese di Sasso di Asiago (Altopiano dei Sette Comuni, Prealpi Venete). Annali del Museo Civico di Rovereto, 11, 339-348.
Kotsakis T. & Nicosia U., 1980 - Il «coccodrillo di Portomaggiore» (Ferrara). In I vertebrati fossili italiani , 103-104, Verona.
Leonardi, P., 1956. Notizie preliminari sul “Coccodrillo di Portomaggiore”. Bollettino della Società Geologica Italiana, 75, 88–90.
Vignaud, P., 1995. Les Thalattosuchia, crocodiles marins du Mésozöique: Systématique, phylogénie, paléoécologie, biochronologie et implications paléogéographiques. Ph.D. thesis, Université de Poitiers, Poitiers.
Wilkinson, L.E., Young, M.T., Benton, M.J., 2008. A new metriorhynchid crocodile (Mesoeucrocodylia: Thalattosuchia) from the Kimmeridgian (Upper Jurassic) of Wiltshire, UK. Palaeontology, 51, 1307–1333.
Young, M.T., Andrade, M.B., 2009. What is Geosaurus? Redescription of Geosaurus giganteus (Thalattosuchia: Metriorhynchidae) from the Upper Jurassic of Bayern, Germany. Zoological Journal of the Linnean Society, 157, 551–585.

7 commenti:

  1. Commovente (XD ma niente sarcasmo)
    Inutile dire che attendiam con ansia il pdf e tutti i post dedicati!!!
    :)
    PS
    Comunque questo mostra quante interessanti e pieni di sorprese (se le si sa apprezzare) sian i vecchi esemplari nei musei e nelle cantine!
    Altro che andare a scavare! A volte i tesori son dove meno ce li aspettiamo

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  2. I will be very interested to read your paper when it comes out. Will it be in one of the Italian paleo journals or something more international?

    Cheers,

    Nick

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  3. Nick, the paper will be published in an international Earth-sciences journal. It's currently in press but not impaginated in the final version. I hope the impaginated version will be available soon.
    When it comes out, I'll send one pdf copy! :-)

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  4. Grazie.

    Andrea/GGD!

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  5. Good stuff from SVPCA 2010:


    The first spinosaurid (Dinosauria, Theropoda) from the Lower Cretaceous of Australia: implications for Gondwanan palaeobiogeography
    Paul M. Barrett, Roger B. J. Benson, Thomas H. Rich and Patricia Vickers-Rich

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  6. Tengo a precisare che il marmista che si accorse del fossile si chiama Sarti Cleante marmista, fu lu ha notare le da lui chiamate strane venature mentre stava tagliando il blocco di marmo e mettere al corrente il titolare Francesco Pasini.

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    1. Grazie per l'informazione, non conoscevo questo aspetto.

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