(Rough) Translator

24 agosto 2017

Miti e Leggende Post-Moderne sui Dinosauri Mesozoici: La Caduta degli Dei

Una immagine a caso, cercando "dinosaur extinction" su Google...


L'iconografia dei dinosauri è prima di tutto una iconografia dei nostri pensieri.
Nessuno è stato nel Mesozoico per immortalare le scene che vediamo nelle rappresentazioni di paleoarte. La parte più paleo-radicale di me potrebbe chiosare con un "i fossili sono le mie foto del Mesozoico", ed avrebbe ragione. Ma in quanto tali, i fossili raramente mostrano direttamente la vita del passato. Nella maggiorana dei casi, i fossili sono sbiadite fotografie consumate di momenti di morte (scheletri, bonebed), o ambigue impressioni di attività vitale (piste di impronte, tracce di morsi). Eventi a scala globale non lasciano tracce fossili "dirette", ma sono interpretati alla luce di ampie successioni geologiche depositate in lunghi intervalli di tempo, da noi analizzate, correlate, comparate.
Non esiste il "fossile dell'era glaciale", ma esistono numerose associazioni geologiche interpretate come prodotto di antiche fasi glaciali durate per secoli. Sebbene non esista il fossile di una era, esiste il fossile di un evento. E se tale evento fu talmente potente e catastrofico da produrre tracce durature nelle serie geologiche, forse ha senso immaginare tale istante epocale. Parlo ovviamente del giorno più triste dell'intera storia della Terra, il giorno in cui finì il Mesozoico. Il giorno in cui un bolide interplanetario impattò con la Terra sterminando il 70% delle specie viventi allora.

Ah! Ci sono cascato! Eccola, la narrazione epica, il ricorso alla drammatizzazione scenica. Ed eccoli, tutti i miei lettori che nel leggere le ultime due righe qui sopra hanno sicuramente immaginato un gigantesco pezzo di pietra pomice che si avvicina al Golfo del Messico, una enorme palla di fuoco in cielo, dinosauri che si contorcono nell'agonia, l'inverno nucleare e il mammifero "a forma di topo", scampato al disastro, che esce dall'orbita vuota del cranio del T.rex.

Insomma, sono sicuro che la maggioranza di voi abbia immaginato almeno una delle scene che ho elencato. Non possiamo farci nulla, siamo figli della nostra epoca. E nella nostra epoca, la fine del Mesozoico ha una iconografia e scenografia canonica. Il Grande Cataclisma Cosmico con Venature Morali e Finale Aperto. Questo dramma ha vari nomi popolari: "il meteorite che uccise i dinosauri", "l'asteroide dell'apocalisse" e via dicendo.

In questo post, mi soffermo su alcune immagini ormai classiche di questa iconografia apocalittica, per capire quanto siano realistiche. Se lo sono.

Il bolide.
In realtà, non è chiarissimo che oggetto abbia impattato con la Terra formando il famoso cratere nello Yucatan. Esiste una ampia varietà di corpi vaganti nel Sistema Solare che possono ambire a quel ruolo, con forme, tessiture, colore e struttura molto diverse. Eppure, la grande maggioranza delle rappresentazioni è canonizzata in un oggetto vagamente ovoidale, compatto e roccioso, ma dai margini relativamete levigati, di colore grigio e butterato da vari crateri. Insomma, un pezzo di pietra pomice, ma del diametro di 10 km.
Quella della Grande Pomice che uccide i dinosauri è una delle prime costruzioni iconografiche che assumiamo senza critica. Ma sarà proprio quella la forma del bolide? Probabilmente, no.

L'arrivo del bolide (testa)
Nelle rappresentazioni video dell'impatto della fine del Mesozoico, si vede quasi sempre una immagine della Terra tardo-maastrichtiana sullo sfondo, ed il nostro minaccioso bolide - in primo piano - che corre via dall'osservatore, ed in rotta di collisione con il nostro pianeta. La scena spesso è didascalica fino al ridicolo: il bolide punta dritto verso il Golfo del Messico, il quale fronteggia il proiettile cosmico ben prima del fatidico impatto.
In pratica, la rappresentazione canonica afferma che la Grande Pomice era su un'orbita praticamente perpendicolare al punto di impatto. Quanto è realistica una simile rappresentazione? Non sarebbe più plausibile che la traiettoria del bolide non fu così accuratamente perpendicolare al pianeta Terra nel suo punto di impatto? Insomma, non vorremo credere che un corpo celeste dotato di propria orbita colpisca la Terra come farebbe una palla di piombo gettata dalla Torre di Pisa...

L'arrivo del bolide (coda)
Altro stereotipo iconografico e scenico nella fase di collisione con la Terra, è la presenza di una scia più o meno voluminosa di detriti che formano una "coda" del bolide. Questa rappresentazione pare alludere ad un qualche attrito tra il bolide ed il mezzo circostante, che eroderebbe il bolide trascinandosi dietro frammenti rallentati dall'attrito. Peccato che tutta la scena avvenga nel vuoto interplanetario, dove l'attrito è nullo. E comunque, se anche il bolide si frammentasse a ridosso della Terra, ogni suo frammento continuerebbe a muoversi con la velocità di prima, e non sarebbe rallentato né formerebbe una scia di coda, ma anzi, accellererebbe assieme a tutti gli altri, per attrazione gravitazionale dell'imminente pianeta Terra.

L'attraversamento dell'atmosfera terrestre
Questa è, tra tutte le bufale classiche legate all'iconografia della fine del Mesozoico, quella che preferisco. Ecco, ora che la Grande Pomice è vicinissima alla Terra, l'inquadratura cambia: non più esterna al pianeta, ma a ridosso, se non direttamente a livello della superficie terrestre. Ecco, vediamo il bolide che arriva, a velocità pazzesca, nell'atmosfera. Penetra l'atmosfera, lasciandosi dietro una scia bianchissima ed incandescente. Se prima, nel vuoto cosmico, la presenza di una scia prodotta dall'attrito non aveva alcun senso, ora possiamo ammettere che all'interno dell'atmosfera l'attrito con l'aria produca sia frammenti incandescenti che una scia di coda rallentata dall'attrito.
Peccato che ci sia un "ma". Un "ma" dimensionale.
Il bolide che sta impattando con la Terra ha un diametro stimato sui 5-10 km e viaggia a molte migliaia di km all'ora. L'atmosfera terrestre (la troposfera) ha un diametro uno spessore di 10 km, ovvero, lo stesso ordine di grandezza del bolide. Con qualsiasi inclinazione voi facciate impattare il bolide, esso non farebbe in tempo a toccare la superficie terrestre con la sua estremità anteriore che la sua estremità posteriore sarebbe ancora fuori dall'atmosfera.
Ovvero, nessuna scia nell'atmosfera: non c'è né spazio né tempo per generarla.
Eppure, abbondando immagini del bolide che attraversa l'atmosfera come se questa fosse almeno 10 volte più spessa della Grande Pomice.

L'impatto.
L'impatto tra un corpo di quelle dimensioni e la Terra è difficile da immaginare. Il buon senso ci dice che a quella scala di dimensioni, masse ed energie cinetiche, qualsiasi analogia con esplosioni o impatti tradizionali è irrealistico. Eppure, tutti tendono a mostrare l'impatto come se fosse una palla di cannone contro un deposito di benzina. Una enorme palla di fuoco, con tutto che viene vaporizzato e scagliato intorno al punto di impatto. Ma da quale distanza sarebbe realistico osservare una simile esplosione senza restare inceneriti? Da terra, probabilmente ad una distanza di molte migliaia di chilometri. Ma siccome la Terra è sferica, a quella distanza non si vedrebbe nulla, perché l'impatto sarebbe ben oltre l'orizzonte. Quindi, da Terra nessuno può realisticamente osservare un impatto del genere "all'orizzonte". Quelli sufficientemente vicini da poter vedere l'impatto probabilmente sarebbero disintegrati dal calore dell'impatto stesso prima ancora che questo sia arrivato a toccare la superficie terrestre. Ovvero, la scena dei dinosauri che pascolano mentre all'orizzonte si schianta il bolide andrebbe sostituita con una unica schermata bianca luminosissima.

Il pathos degli ultimi dinosauri
Anche se ho appena rimarcato che nessuno potrebbe realisticamente osservare la caduta di quel bolide, la maggioranza delle rappresentazioni dell'impatto mostra i dinosauri che sono emotivamente coinvolti nella consapevolezza della loro imminente estinzione. Un classico di queste iconografie è il T.rex che ruggisce verso il bolide (che sta attraversando l'atmosfera...), come se un animale con il cervello di un coccodrillo sia consapevole che in quel momento sta cadendo un oggetto proveniente dallo spazio interplanetario, attraversando l'atmosfera a velocità pazzesca, per porre fine a 160 milioni di anni di dominio del suo clade.
Altro stereotipo, più pacchiano, è quello che mostra un numero variabile di dinosauri (di solito patetici non-theropodi smidollati che non osano ruggire) che scappano terrorizzati verso l'osservatore, mentre sullo sfondo si sprigiona l'energia dell'impatto. Anche in questo caso, è una scena totalmente irrealistica. Non solo perché, come ho detto prima, chi si trovasse dentro l'orizzonte dell'impatto sarebbe incenerito prima ancora che l'impatto vero e proprio abbia luogo, ma sopratutto perché è improbabile che degli animali siano presi dal panico per il solo illuminarsi del cielo e "sappiano" in quale direzione tentare una vana fuga. La reazione classica degli animali di fronte ai lampi improvvisi di luce è di paralizzarsi, come avrà imparato chiunque abbia investito un gatto con la propria auto di notte, perché questo si era immobilizzato, accecato dai fari.

Ma, evidentemente, i dinosauri sapevano che quella era la loro fine e si lasciarono andare alle più patetiche delle sceneggiate melodrammatiche...

22 agosto 2017

Serikornis, per gli amici: Silky!

Il mio calco di Silky si gode il sole d'Agosto

I regali più belli sono quelli inaspettati.
I regali inaspettati più belli sono - ovviamente - dei theropodi.
Il 31 agosto del 2015 ricevetti un bellissimo regalo inaspettato. Era il mio ultimo giorno dei 3 mesi passati presso l'Istituto Reale delle Science Naturali di Bruxelles, dove avevo svolto ricerche paleontologiche assieme a Pascal Godefroit, col quale avevo già studiato Aurornis, ed il suo studente di dottorato, Ulysse Lefevre. Il regalo che ricevetti da parte di Pascal e gli amici di Bruxelles era un calco in vetroresina, estremamente accurato, colorato esattamente come l'originale, di uno dei fossili che avevo studiato in quei tre mesi. Il calco, e l'animale dal quale è stata tratta la forma per il calco, ha da allora un soprannome: Silky, letteralmente, “il setoso” (o anche “vellutato”, ma io preferisco “setoso”).
Dopo 2 anni di studio, preparazione, revisione e contro-revisione, l'articolo che descrive Silky è finalmente pubblicato (Lefevre et al. 2017). Il nostro caro Silkino è elevato ad olotipo di un nuovo taxon paraviano dal Giurassico Medio-Superiore della Cina, che abbiamo battezzato Serikornis sungei. La parola “serikornis” significa letteralmente “uccello setoso”, quindi è più o meno la traduzione scientifica di "Silky".

16 agosto 2017

Chilesaurus è un Ornithischio in supporto di Ornithoscelida?



Chilesaurus è uno dei più enigmatici dinosauri scoperti negli ultimi anni.
La sua combinazione "chimerica" di caratteri lo rende inatteso e problematico, perlomeno alla luce delle relazioni filogenetiche "classiche" consolidate.
Chilesaurus è stato inizialmente collocato tra i theropodi, nella parte basale di Tetanurae, quindi relativamente interno al clade. Tuttavia, la sua morfologia ricorda sia alcuni coelurosauri (come gli alvarezauroidei) sia i sauropodomorfi basali. Inoltre, in alcune caratteristiche, condivise con buona parte dei theropodi, Chilesaurus ricorda anche gli ornithischi.
Proprio alla luce di queste somiglianze condivise tra Chilesaurus, theropodi e ornithischi, parte del team che recentemente ha proposto la rivoluzionaria ipotesi di Ornithoscelida (Baron et al. 2017), suggeriscono ora che Chilesaurus sia un ornithischio, e quindi un ulteriore sostegno all'idea che neotheropodi e ornithischi siano strettamente legati (Baron e Barrett 2017).

Prima ancora che leggessi il loro articolo, e basandomi sulle notizie riportate nei media, sono stato scettico su questa rivalutazione di Chilesaurus. So che è un argomento ad hominem, ma il fatto che un nuovo studio che collochi Chilesaurus in Ornithischia sia scritto proprio dagli stessi autori dell'ipotesi di Ornithoscelida, mi faceva sospettare che quel risultato fosse condizionato dalla particolare analisi filogenetica usata proprio per sostenere Ornithoscelida.

Leggendo lo studio (Baron e Barrett 2017) i miei dubbi sono confermati.
Gli autori includono Chilesaurus nella loro matrice originaria usata per ottenere Ornithoscelida, modificata solamente a livello di un dinosauriforme. L'analisi colloca Chilesaurus come forma più basale di Ornithischia, sister-taxon del nodo "Pisanosaurus + altri ornithischi". Notare che Pisanosaurus probabilmente non è stato aggiornato alla luce della recente ri-valutazione come membro di Silesauridae: ciò è da rimarcare, dato che escludendo Pisanosaurus dagli ornithischi si sarebbe ulteriore robustezza alla posizione di Chilesaurus. Ad ogni modo, per sostenere la loro ipotesi, gli autori testano anche Chilesaurus ri-collocandolo in Theropoda, e concludono che tale posizione non è parsimoniosa, e quindi scartabile, rispetto alla posizione alla base di Ornithischia.

Questo risultato significa allora che Chilesaurus è l'ornithischio più basale noto?

Risposta breve: NO.

Risposta lunga:
Il risultato di Baron e Barrett (2017) è probabilmente un artefatto di campionamento tassonomico

La matrice di Baron et al. (2017) non permette di testare tutte le posizioni di Chilesaurus. In particolare, l'ipotesi originaria per Chilesaurus, ovvero una sua collocazione in Tetanurae (Novas et al. 2015), non può essere replicata, dato che la matrice di Baron et al. (2017) e la sua nuova vesione (Baron e Barrett, 2017) NON campionano dentro Tetanurae! Ovvero, non avendo tetanuri nel suo campione, questa analisi è incapace di testare l'eventuale status di Chilesaurus in Tetanurae.
La spiego per i non-filogenetisti: cosa succede se un potenziale tetanuro con caratteri che ricordano gli ornithischi viene incluso in una matrice che è focalizzata sull'origine degli ornithischi ma che non campiona (ovvero, include taxa del gruppo dei) tetanuri? Risulta che il taxon in questione viene collocato dall'analisi nella unica posizione parsimoniosa a disposizione con quei dati incompleti: ovvero, non avendo tetanuri, il taxon viene automaticamente posizionato vicino a ciò che gli somiglia maggiormente (a parte i tetanuri stessi, ma qui assenti): gli ornithischi!
Mancando di tetanuri, l'analisi è viziata all'origine nel posizionare in Ornithischia qualsiasi tetanuro simile ad un ornitischio, indipendentemente dal fatto che quella cosa sia veramente un ornithischio.
In gergo tecnico, è un classico caso di Attrazione del Ramo Lungo.
Ovvero, in assenza di tetanuri, qualsiasi tetanuro che somiglia ad un ornithischio risulta piazzato dall'analisi presso Ornitischia. Ma, ed è qui il nocciolo: se non abbiamo dimostrato a priori che Chilesaurus NON appartiene a Tetanurae, questa analisi, così come è costruita oggi, non è in grado di provare alcuno status ornitischiano.
Questo è un banale caso di artefatto dell'analisi dovuto ad un incompleto campionamento tassonomico.

Conclusione: la posizione di Chilesaurus in questa analisi è sospetta, probabilmente spuria per via di un campionamento inadeguato, quindi non definitiva.
Se volete dimostrare che Chilesaurus è un ornitischio, dovete includere nell'analisi tutti i potenziali candidati alternativi, in particolare i tetanuri. Senza tetanuri, l'analisi è inadeguata per sostenere ciò che l'articolo vuole affermare.

PS: NON sto dicendo che Chilesaurus sia senza dubbio un tetanuro, ciò richiederebbe una analisi dettagliata che ancora manca. Sto solo sottolineando come, sul piano metodologico, l'analisi di Baron e Barrett (2017) è inadeguata per supportare ciò che essi affermano in quell'articolo. Lo studio uscito oggi ha delle pecche di metodo e non può essere usato per affermare uno status ornitischiano per Chilesaurus, perché è palese - almeno ad un filogenetista paleontologico come me - che la posizione ottenuta è un artefatto di campionamento.
Quindi, NON date retta ai titoloni enfatici online: Chilesaurus deve ancora essere adeguatamente compreso.


Bibliografia:

Baron M.G. et al. 2017. A new hypothesis of dinosaur relationships and early dinosaur evolution. Nature 543, 501-506.
Baron MG, Barrett PM. 2017 A dinosaur missing-link? Chilesaurus and the early evolution of ornithischian dinosaurs. Biol. Lett. 13: 20170220.
Novas F.E. et al. 2015. An enigmatic plant-eating theropod from the Late Jurassic period of Chile. Nature 522, 331-334.

12 agosto 2017

Commento Paleontologico a Damasco e Giuliani (2017) “A resonance based model of biological evolution”



Non dovremmo arroccarci dentro le nostre torri d'avorio, né guardare con sospetto e preoccupazione le iniziative interdisciplinari. Niente è più salutare per la scienza che la connessione libera, arbitraria e anarchica tra diverse discipline. La storia pullula di lodevoli episodi in cui metodi e approcci nati in un contesto sono stati esportati in nuove branche del sapere, producendo felici ibridazioni a loro volta produttrici di nuove scoperte e innovazione. Il caso più onorato nel mio ambito è quello di John McIntosh, di formazione un fisico, ma anche uno dei massimi esperti di sauropodi del XX secolo. Io stesso, nella mia tesi di dottorato, ho utilizzato metodologie sviluppate in epidemiologia molecolare per analizzare il record fossile. Quindi, nessuno provi ad accusarmi di essere settario, elitario o xenofobo verso i non-paleontologi che portano (o provano a portare) contributi alla mia disciplina.
Ma per proporre e sviluppare un contributo serio in una disciplina diversa dalla propria, occorre avere l'esperienza e la conoscenza all'altezza della proposta. Il caso che commento oggi, purtroppo, non rispetta questa sacrosanta regola. Damasco e Giuliani (2017) propongono un modello matematico per l'evoluzione biologica. Nello studio, ed è questa la parte che mi interessa maggiormente, essi interpretano alcune tematiche paleontologiche macroevolutive alla luce del loro modello. La mia revisione si focalizza su queste interpretazioni, o meglio, su come gli autori affrontano ed interpretano i dati paleontologici.
L'articolo è terribilmente asimmetrico: ad una parte matematica, nella quale gli autori probabilmente sono più avvezzi, segue una non altrettanto rigorosa e del tutto insostenibile parte di interpretazione paleontologica.
Sia chiaro, gli autori non sono paleontologi. Ma allora, perché impantanarsi in un terreno che non è il loro? Alla fine della lettura di Damasco e Giuliani (2017) provo quel genere di sensazione biliare che caratterizza le cattive digestioni. Pur senza averne i titoli e l'esperienza, gli autori di questo breve articolo pubblicato in una rivista di fisica, ma avente come obiettivo l'evoluzione biologica, si prendono il lusso di fare speculazioni su temi paleontologici (inclusi, ovviamente, i sempre abusati dinosauri!), e falliscono miseramente. Essi ricadono nello stesso errore che commise Lord Kelvin un secolo e mezzo fa, quando obiettò all'ipotesi darwiniana della grande antichità della Terra (ipotesi necessaria per permettere l'evoluzione biologica nel modo che oggi riteniamo valido) sostenendo che la fisica termodinamica imponeva una età planetaria più corta, nonostante che la biologia portasse – a ragione, sappiamo ora – ad un ben più grande lasso temporale.
Io non ho sicuramente le basi matematiche per argomentare al modello matematico proposto in quello studio, pertanto non è quello l'obiettivo di questa revisione. Nondimeno, ho sufficientemente bagaglio biologico ed evoluzionistico per constatare la generale grossolanità nella visione dell'evoluzione biologica presente in quel lavoro. E sicuramente ho una conoscenza della paleontologia molto più profonda di quella degli autori dell'articolo: pertanto, credo di avere i titoli per analizzare la parte paleontologica di quello studio.
Prima nota: possibile che l'ampia, intricata, a tratti travagliata, discussione in seno all'evoluzionismo moderno si riduca in quell'articolo ad una manciata scarna di citazioni? Non è un dettaglio marginale, in un articolo che ha nel proprio titolo “biological evolution”. Eppure, se si legge la bibliografia, gli autori citano sì e no cinque-sei lavori che trattano dei modelli dell'evoluzione biologica. Interessante che uno degli articoli citati è Gould & Eldredge (1977), una delle trattazioni sull'ipotesi degli equilibri punteggiati. Eppure, lo stesso Gould (2002: “La Struttura della Teoria dell'Evoluzione”) nella sua monumentale opera conclusiva rimarca in più occasioni che la loro ipotesi evoluzionistica non si risolve certamente nelle trattazioni degli anni '70, e che il puntazionismo gouldiano-eldregiano fu molto rielaborato negli anni '80 e '90. Citare solamente un lavoro del 1977 è insufficiente per chi voglia parlare di equilibri punteggiati, figuriamoci se vuole parlare dell'intera evoluzione biologica! Possibile che un articolo che si propone di sviluppare un modello alternativo sull'evoluzione biologica sia così avaro, striminzito e scarno nel riferirsi all'enorme dibattito al quale vorrebbe contribuire (se non addirittura portare una volta)? Che ciò implichi la generale grossolanità ed ignoranza degli autori verso ciò che vorrebbero argomentare? Temo di sì. Sebbene una critica della visione dell'evoluzione biologica presente in Damasco e Giuliani (2017) meriterebbe a sua volta una trattazione dettagliata (ad esempio, nella sospetta leggerezza con cui gli autori saltano nel loro modello dal piano di organizzazione degli organismi a quello delle specie, oppure nell'abuso di virgolettati ogni qual volta gli autori menzionano la terminologia evoluzionistica, atteggiamento che rende la loro argomentazione alquanto ambigua), io qui mi focalizzo sulle implicazioni paleontologiche sostenute nell'articolo: non è ammissibile che un articolo pubblicato su una rivista scientifica internazionale soggetta a revisione paritaria e che si propone come interlocutore in argomentazioni macro-evoluzionistiche applicabili in paleontologia usi come argomenti a suo favore delle trattazioni così sempliciotte e imprecise di complesse tematiche paleontologiche. Come paleontologo, sono piuttosto deluso da questo abuso delle complesse problematiche su cui la mia disciplina lavora da due secoli.
Difatti, già questo basterebbe per liquidare lo studio come un puro gioco matematico, infarcito di terminologie che simulano la biologia e applicato – per gioco – ad una versione fumettistica della paleontologia. Se pensate che ora io stia esagerando, vado direttamente al nocciolo del problema, riportando fedelmente le parti che trattano di paleontologia.
Dopo aver proposto le ipotesi ed i corollari del loro modello, gli autori entrano direttamente in temi paleontologici (nel senso letterale: discorsi sulla vita del passato):

Interessante la frase finale: è loro opinione che questo risulterà un utile esercizio per controllare la plausibilità del loro modello. Ma per stabilire tale plausibilità nel “reinterpretare” la storia della vita sulla Terra, occorre che il controllo sia svolto da un paleontologo, altrimenti è una partita fatta senza arbitro.
Gli autori citano tre “episodi” (ma sarebbe più saggio chiamarle “fasi”: un episodio è un evento più puntiforme rispetto a quelli citati) della storia della Terra:
La “stasi pre-Cambriana” [sic], la “Esplosione del Cambriano” ed il Mesozoico [sì... il Mesozoico “in toto”, sebbene poi gli autori si focalizzino sulla sua conclusione].
Secondo gli autori, tra 2 miliardi e 500 milioni di anni fa (riferito come “Cambriano inferiore”, sebbene il Cambriano inferiore sia datato a 540-530 milioni di anni fa), la storia della vita è caratterizzata da una “lunga stasi evolutiva”, sebbene questa non sia né quantificata né viene riportata alcuna fonte in merito. Aldilà del modo per quantificare la “stasi pre-cambriana”, credo che gli autori abbiano frainteso il concetto di stasi. Il record paleontologico pre-cambriano è caratterizzato da scarsità di parti dure, le quali sono le principali fonti di record fossile. Pertanto, la vita precambriana è in larghissima parte una storia di parti molli, e quindi presenta una ampia lacunosità, dato che le parti molli fossilizzano solo in condizioni particolari, spesso rare. Ciò significa che la vita precambriana fu caratterizzata da una “lunga stasi”? Non necessariamente: significa solamente che ebbe una ridotta partecipazione di organismi con parti dure. Quale fu l'entità dell'evoluzione degli organismi a parti molli? Per stabilirlo occorre quantificare la complessità anatomica di 2 miliardi di anni fa con quella dell'inizio del Cambriano: se l'entità di modifiche intercorse è relativamente basso rispetto a quello avvenuto nel Fanerozoico (dal Cambriano a oggi), sarebbe ragionevole argomentare su una “stasi”. Analizziamo il record fossile precambriano, anche solo a grandi linee. Il record fossile risalente a 2 miliardi di anni fa presenta solamente organismi con un livello di organizzazione procariotica (come i batteri), e si conclude con i precursori dei principali piani corporei dei metazoi: un simile salto di complessità non sarà mai eguagliato, e sebbene si diluisca in un miliardo e mezzo di anni, è tutto fuor che “statico”. Cellule di tipo eucariotico, dotate di organelli e nucleo, aventi dimensioni un ordine di grandezza superiore ai procarioti e dotati di una complessità altrettando maggiore, si rinvengono attorno a 1 miliardo e mezzo di anni fa: questo implica che durante il primo mezzo miliardo di anni menzionato dagli autori vengono acquisiti tutti quei tratti genetici e cellulari che distinguono gli eucarioti dai procarioti. Usando la quantità genetica come misura grossolana dell'aumento di complessità, si va da qualche milioni di basi a qualche miliardo: 3 ordini di grandezza. Un simile aumento di complessità genetica non si ripeterà nel Fanerozoico, ed ha comportato l'evoluzione di una ampia serie di funzioni biochimiche e cellulari assenti prima. Inoltre, tra 1 miliardo e mezzo e 800 milioni di anni fa avviene l'acquisizione della condizione pluricellulare, in almeno una quarantina di linee filetiche distinte. Ovvero, almeno 40 volte si è passati da specie unicellulari a specie pluricellulari. Siccome intorno a 700 milioni di anni fa abbiamo i primi fossili riconducibili ad animali (metazoi), durante lo stesso intervallo di tempo devono essersi originati i principali gruppi pluricellulari, come funghi e i vari gruppi di alghe. Ognuna di queste linee evolutive sviluppò specializzazioni cellulari prima di 700 milioni di anni fa. Infine, la presenza di tracce di fondo sempre più complesse a partire da 700 milioni di anni fa indica una progressiva diversificazione ecologica nella parte superiore del Precambriano. Sebbene il record fossile, privo di parti dure, è più scarso che nel Fanerozoico, tutto indica che la storia della vita precambriana non fu affatto statica. Sostenerlo è, oltre che grossolano, del tutto falso.


Gli autori menzionano la (abusata) formula della “esplosione cambriana” ma non è chiaro come il loro modello sia utile per comprendere l'origine e diversificazione dei metazoi dotati di parti dure avvenuto durante la metà del Cambriano. Gli autori citano due fattori: “la relativa rapida successione di eventi climatici e geologici” e “la situazione in cui le specie prima dell'esplosione erano simili tra loro” e questo, nel loro modello, indurrebbe una rapida diversificazione. Il primo fattore è del tutto estraneo al loro modello: è una mera constatazione di quanto sappiamo dal record fossile. Citare “la successione di eventi climatici e geologici” è rifarsi alla Geologia Storica, è un riconoscere che il modello proposto è talmente semplice da non spiegare alcunché. Se il modello proposto deve ricorrere alla Geologia Storica, allora restiamo pienamente in Geologia e non abbiamo bisogno di modelli matematici. Il secondo fattore è contraddetto da quanto sappiamo dal record fossile: come ho scritto prima, il record fossile ci mostra che la diversità delle tracce negli ultimi 150 milioni di anni del Precambriano è progressivamente aumentata: pertanto, non è vero, come sostengono gli autori, che prima della “esplosione” le forme viventi fossero relativamente simili: se quello fosse stato il fattore chiave, allora l'esplosione avrebbe dovuto avvenire ancora prima di 700 milioni di anni fa, invece che 530 milioni, ovvero quando le forme erano ancora più simili tra loro di quando avvenne l'esplosione!


Questo è un falso problema, nel quale anche Gould cadde quando parlò dell'esplosione cambriana nel suo noto libro “Wonderful Life”. Una scorretta interpretazione della sistematica ha portato in passato (e porta ancora molti, purtroppo) a considerare la radiazione metazoa del Cambriano (l'esplosione) come un evento unico nel suo genere. In realtà, è la nostra tradizione tassonomica linneana, che gerarchizza i cladi in categorie di diverso “grado”, ad aver eletto la radiazione cambriana come “speciale”. Dato che i “phyla” non sono entità speciali, ma cladi come qualunque altro, domandarsi come mai i “phyla” compaiano solo nel Cambriano equivale a domandarsi come mai i cladi più inclusivi compaiano prima di quelli meno inclusivi: per mera definizione di “inclusivo”. Quindi, l'esplosione cambriana è “unica” solo per un artefatto delle nostre tassonomie. Semmai, il quesito significativo è quale fattore portò alla rapida evoluzione di parti dure durante il Cambriano Medio: ma questo è un tipo di domanda contingente, ovvero squisitamente naturalistica, che non può in alcun modo essere risolto da un modello matematico generale.


Ok, fino a questo punto ho cercato di argomentare agli errori paleontologici ed alle grossolanità presenti in Damasco e Giuliani (2017) in modo pacato. Tuttavia, leggere nel 2017, in un articolo su rivista scientifica internazionale soggetta a revisione paritaria, che il Mesozoico fu “dominato dai rettili”, che i mammiferi erano “simili agli odierni topi” e che comparvero i primi “piccoli uccelli”, è non solo ridicolmente grossolano, ma anche fastidioso per chi studia la paleontologia dei vertebrati mesozoici da 15 anni. La grossolanità raggiunge l'apice con il più classico degli stereotipi sul Mesozoico, l'idea, del tutto priva di basi, che esso fosse caratterizzato da “un clima molto stabile”. La stessa idea di ridurre l'intero Mesozoico ad un singolo gradiente climatico è ridicola a chiunque abbia un minimo di dimestichezza col tempo geologico. In ogni caso, abbiamo evidenze di condizioni climatiche estreme durante il Mesozoico, e sarebbe molto ingenuo ridurre la relativa scarsità di condizioni polari/glaciali del Mesozoico ad una stabilità ed uniformità geografica e temporale globale.
L'argomentazione portata dagli autori per sostenere una validità del loro modello per l'estinzione del Cretacico finale è, scusate la brutalità, patetica: essi sostengono che i dinosauri erano “long-lived animals” e che quindi, in base al loro modello, ciò li renda differenti dai primi uccelli e i primi topi [sic]. Questa ipotesi di partenza è falsa su qualsiasi piano paleontologico: gli uccelli SONO dinosauri, e non ci sono motivi per considerare Triceratops prorsus (specie di dinosauro della fine del Mesozoico) una forma “long-lived” rispetto a Vegavis iaii (specie di uccello, nonché dinosauro, della fine del Mesozoico). Entrambi appartengono a cladi che si diversificano nella seconda metà del Cretacico Superiore, e non ci sono motivi per cui il modello matematico proposto dagli autori sia in grado di distinguere l'esito delle due storie evolutive. Inoltre, alla fine del Mesozoico si estinsero anche molti tipi di uccelli e di mammiferi. Forse gli autori pensavano che tutti gli uccelli e tutti i mammiferi del Maastrichtiano si rinvengono vivi ed intonsi nel Daniano? Limitandomi agli uccelli, alla fine del Cretacico scomparvero gli enantiornithi, gli hesperornithidi, e vari tipi di ornithuri molto prossimi ai neornithi, unici a passare il limite K-Pg. Alla luce del modello sostenuto dagli autori, cosa distingue questi uccelli da quelli che sopravvissero? Lo stesso discorso vale per i mammiferi estinti rispetto a quelli che sopravvissero, o per Nautilus rispetto agli ammonoidi. O per quelle 3-4 forme di foraminifero che sopravvissero mentre tutte le altre furono cancellate. O per i mosasauri, nel pieno della loro radiazione adattative, rispetto ai noiosi champsosauri che passarono il limite senza estinguersi. Pertanto, non c'è alcun tipo di prova empirica e paleontologica che i dinosauri fossero per qualche ragione “diversi” dai mammiferi o dagli uccelli in relazione alle caratteristiche del modello matematico proposto. Il modello funziona solo se si crede alla favola del Mesozoico dal clima stabile e si crede che un uccello (neornithe) sia qualcosa di diverso da un dinosauro (e dagli uccelli che si estinsero!). Alla luce della totale grossolanità del modello e del modo con cui non spiega nulla, concludo che gli autori hanno forzato pretestuosamente le loro grossolane (ed errate) concezioni sui dinosauri e sul Mesozoico per adattarle alle (altrettanto grossolane) caratteristiche del loro modello matematico.

Questa non è scienza, ma puro gioco matematico applicato a favole e mistificazioni infondate.

Credo sia una malattia tipica di alcuni rami delle scienze fisiche, o di certi ricercatori tendenti alla fisica, la presunzione di essere in grado di fornire spiegazioni anche ai fenomeni studiati da altre discipline. Immaginate se io, paleontologo evoluzionista, pubblicassi un articolo nel quale suggerisco un modello paleontologico del decadimento radioattivo. Immaginate le risa e le burla rivolte ad un articolo ridicolo in partenza. Eppure, io potrei obiettare in quella situazione, che all'Università ho sostenuto (con tanto di lode!) l'esame di fisica, e che quindi non sono del tutto ignorante in materia. Se io “so” cosa sia il decadimento radioattivo, perché non dovrebbe essere accettata la mia proposta? Dopo tutto, non è quello che ci stanno dicendo gli autori di questo articolo con le loro pretestuose spiegazioni paleontologiche?
Forse, semplicemente, la risposta è che non basta la conoscenza base per fare di me un fisico nucleare. Difatti, io mai mi azzarderei a scrivere un articolo nel quale mi propongo di rivoluzionare la fisica usando un qualche modello generale dedotto dalla paleontologia. Ed allora perché invece un articolo acquisisce il diritto di essere pubblicato nonostante che sia pieno di errori, grossolanità e obsolete rappresentazioni di una disciplina diversa da quella degli autori?
Si torna al solito problema: la paleontologia vista come scienza di serie B, o meglio, una disciplina che non richiede decenni di studio ed esperienza, una disciplina che chiunque con una base in altre scienze può pretendere di rifondare. Credere che basti aver letto da qualche parte che ci fu una “esplosione cambriana” per poter sviluppare un modello che la descrive, non è forse arroganza? Pensare che l'enorme complessità del fenomeno chiamato “estinzione di massa globale del Maastrichtiano terminale” sia riducibile ad un modellino in cui i lenti e vecchi dinosauri scompaiono in virtù di qualche artificio matematico non è forse presunzione e supponenza? Così come io rispetto il lavoro duro e profondo di chi fa ricerca in fisica, e non oserei mai scimmiottare la loro disciplina pubblicando delle banalità fisiche su un articolo paleontologico, così sarebbe saggio, onesto e sopratutto rispettoso del lavoro dei paleontologi, se i fisici, chimici o altri si avvicinassero alle discipline altrui con il rispetto e la serietà di chi ha ancora molto da imparare.
Purtroppo, non tutti si chiamano John McIntosh.