Le dimensioni contano.
Nello studio del cervello animale, questa massima è stata spesso utilizzata, in vari modi.
Un elefante africano adulto ha un cervello che pesa 4 chili e mezzo. Un uomo adulto ha un cervello che pesa un chilo e mezzo. In dimensioni assolute, entrambi gli animali hanno cervelli enormi se confrontati con la maggioranza dei vertebrati, ma dei due è l'uomo quello che ha - notoriamente - le "prestazioni" cerebrali più sofisticate. Pertanto, la dimensione pura e cruda, da sola, non è sufficiente per dedurre qualcosa sulle capacità cerebrali.
Generalmente, la frase è allora ridefinita come "le dimensioni relative contano", ovvero, la quantità cerebrale, in relazione alle dimensioni corporee, ci dice qualcosa sulle "prestazioni" del cervello.
Un elefante adulto ha una massa di 4 tonnellate, mentre l'uomo adulto ha una massa di 70 kg. Ne deriva che l'elefante ha una massa cerebrale pari a circa 1/1000 del corpo, mentre l'uomo ha una massa cerebrale pari a 1/46 del corpo. Già questo rapporto parrebbe dare delle indicazioni utili sulle prestazioni cerebrali. Tuttavia, il semplice rapporto lineare come quello appena usato è fuorviante. Un organo non necessariamente cresce in misura lineare con le dimensioni corporee, e gli animali più piccoli tendono ad avere rapporti più elevati di quelli più grandi. Difatti, se prendiamo in considerazione un topo, con un cervello di mezzo grammo ed un corpo di 40 grammi, vediamo che ha, rispetto all'elefante, un cervello dieci volte più massiccio in relazione al corpo. Eppure, siamo portati a considerare l'elefante più brillante del topo in termini di repertorio comportamentale.
Il problema è che, quindi, le prestazioni del cervello non sono una pura espressione di dimensioni assolute o di rapporti dimensionali, ma una combinazione delle due. Avere un cervello grande in termini assoluti aiuta, ma a patto che quel cervello sia anche grande rispetto al corpo.
Esiste anche un ulteriore fattore, che finora era stato preso poco in considerazione: la densità delle cellule nervose, ovvero, il loro numero rispetto alla massa del cervello. Il tessuto cerebrale difatti non è identico nella sua composizione, sia tra specie differenti che tra diverse parti del cervello.
L'elefante ha 270 miliardi di neuroni nel suo cervello, ovvero, una densità di circa 60 milioni di neuroni per grammo di cervello. Un uomo ha "solo" 90 miliardi di neuroni, ma la medesima densità dell'elefante. Il topo, pur avendo solo 70 milioni di neuroni, ha una densità maggiore rispetto all'uomo ed all'elefante. Ma se confrontiamo la densità a livello del pallio (la parte telencefalica del cervello, quella che processa i comportamenti più complessi e sofisticati), vediamo che l'elefante ha una densità di neuroni nel pallio di 1 milione e 200 mila per grammo, il topo di 3 milioni (più del doppio di quella dell'elefante), e l'uomo di 11 milioni, ovvero nove volte maggiore quella elefantina e quasi quattro volte quella del topo.
Pertanto, è ragionevole supporre che le prestazioni del cervello animale siano in parte deducibili dalla combinazione di questi fattori: grandi dimensioni assolute del cervello ma anche dalla densità dei neuroni, specialmente a livello del pallio.
Perché scrivo questa lunga digressione sui cervelli di alcuni mammiferi? In uno studio uscito in questi giorni,
Olkowicz et al. (2016) misurano la densità dei neuroni nei cervelli di vari uccelli (sia in toto che a livello delle varie aree cerebrali, come il pallio) e ottengono risultati molto interessanti.
Un paio di esempi.
Un emù adulto (massa corporea di 33 kg) ha una massa cerebrale di 22 grammi, ovvero un rapporto cerebrale assoluto di 1/1500, ben più basso dei tre mammiferi mostrati prima. Tuttavia, la densità neuronale è la medesima dell'uomo e dell'elefante (60 milioni di neuroni per grammo di cervello). E se confrontiamo la densità a livello del pallio, l'emù ha una densità doppia di quella umana (8 volte quella del topo e 20 volte quella dell'elefante). In poche parole, il cervello di questo uccello, per quanto piccolo come dimensioni corporee relative rispetto a quello dei mammiferi, ha una densità di cellule nervose molto maggiore. E questo risultato, già notevole per un uccello non particolarmente brillante come un emù, diventa sbalorditivo se prendiamo in considerazione corvidi e pappagalli. Il cervello di un corvo (massa corporea di 1 kg) ha una massa di 14 grammi (1/70 del corpo), ma ben 2 miliardi di neuroni, di cui 1 miliardo e 200 milioni nel pallio. Ovvero, il cervello del corvo ha una densità di 150 milioni di neuroni per grammo, più del doppio di quella umana o dell'elefante. Ed a livello del pallio, la densità è di oltre 90 milioni di neuroni per grammo, quasi 9 volte quella umana!
In generale, Olkowicz et al. (2016) dimostrano che gli uccelli hanno una densità neuronale comparabile a quella dei mammiferi primati, e che tale valore è enormemente più grande per corvidi e pappagalli. Ciò non stupisce, considerando le elevate capacità cognitive di questi uccelli nonostante le dimensioni assolute dei loro cervelli.
Tuttavia, per quanto corvi e pappagalli siano estremamente interessanti, qui mi interessa il valore dell'emù, la forma più basale analizzata in questo studio. I valori nei corvidi e pappagalli sono chiaramente delle condizioni molto derivate tra gli uccelli, esattamente come il cervello umano non può essere preso come "norma" dei mammiferi. Eppure, anche l'emù, pur nella sua relativa "semplicità" comportamentale, mostra densità cerebrali elevate rispetto alla maggioranza dei mammiferi. Ciò suggerisce che l'elevata densità neuronale è un carattere ancestrale di tutti gli uccelli moderni. Quanto "indietro" filogeneticamente (lungo la linea basale aviana e dinosauriana) possiamo estendere questa elevata densità neuronale? Rispondere a questa domanda aiuterebbe a comprendere (o perlomeno, stimare) le prestazioni cerebrali nei dinosauri mesozoici. Purtroppo, in questo studio non ci sono dati sui cervelli dei rettili attuali, e quindi non è chiaro se e quanto questi ultimi siano comparabili agli uccelli, o se abbiano valori mammaliani, o se abbiano valori differenti.
Un confronto con i rettili attuali potrebbe aiutare a dedurre l'evoluzione della alta densità neuronale aviana. Se l'aumento della densità neuronale nel pallio è legata all'espansione del telencefalo, allora potremmo supporre che sia iniziata nei maniraptoriformi, i cui calchi endocranici mostrano una maggiore dimensione telencefalica rispetto agli altri dinosauri. Tuttavia, non è detto che i due fenomeni siano così strettamente correlati. Inoltre, quanto l'evoluzione del bipedismo, con tutto il bagaglio di riorganizzazioni posturali e locomotorie, può aver inciso sull'evoluzione di una maggiore (e più efficiente) gestione delle informazioni nervose? Se questo fattore fosse parte dei meccanismi che hanno favorito la maggiore densità neuronale, allora il fenomeno potrebbe essere iniziato relativamente presto nella storia dei dinosauri. Tuttavia, dubito che il bipedismo (processo locomotorio non coordinato dal telencefalo) abbia svolto un ruolo nel selezionare l'aumento di densità neuronale nel pallio. Un altro fattore che sicuramente ha inciso nel selezionare una maggiore "densità" neuronale è stato la riduzione delle dimensioni del cranio, e l'alleggerimento della regione neurocranica, fenomeno che caratterizza i maniraptoriformi e sopratutto le forme volanti. Anche in questo caso, allora, l'evoluzione di cervelli con una maggiore densità sarebbe da collocare in Maniraptoriformes.
Si tratta di mere considerazioni: solo uno studio della densità neuronale nei rettili viventi ed una eventuale relazione tra densità neuronale e attributi fossilizzabili potrà portare informazioni in questo ambito.
Nondimeno, la elevata densità neuronale aviana suggerisce che, almeno teoricamente, la mera dimensione corporea relativa del cervello non rappresenti - da sola - una limitazione alle prestazioni cerebrali. Ma, ripeto, in assenza di dati diretti per stimare la densità neuronale tra i dinosauri non-aviani, la questione resta puramente speculativa.