Opera di Z. Burian |
La paleoarte ci ha abituati a "viaggiare nel tempo", anche solo con l'immaginazione. Mondi Perduti popolati da faune grottesche ed "aliene" sono il pane quotidiano dell'appassionato fruitore di paleoarte. Tuttavia, è bene ricordare che queste opere non sono "fotografie" del passato, non sono il prodotto della osservazione diretta dell'autore, ma sono una proiezione elaborata dalla sua mente (o dalla mente dei paleontologi consultati per realizzare l'opera). Se l'artista omette un elemento della rappresentazione, tale elemento sarà assente. Se l'autore dà per scontato un certo elemento e lo include (più o meno consciamente), quell'elemento sarà presente nella iconografia del passato. Ciò implica che l'immagine che noi spettatori costruiamo nella nostra mente a partire dalla paleoarte è fortemente influenzata dalla immagine che il paleoartista (ed i paleontologi) hanno costruito nella loro testa.
Il soggetto principale delle opere di paleoarte è quasi sempre una o più specie animali. A volte, anche la flora è protagonista e non solamente un mero sfondo nella rappresentazione. Ma cosa dire dello sfondo vero e proprio? Ovvero, come si deve rappresentare il cielo nella paleoarte? La domanda potrebbe sembrare futile, dato che il cielo del passato si presume sia lo stesso cielo di oggi. Ma non è così. L'atmosfera terrestre non è un contenitore passivo e statico, ma al contrario, è l'elemento più dinamico e variabile del "Sistema Terra", come sperimentiamo ogni giorno in cui siamo in balia del meteo.
Un elemento che diamo per scontato è il colore del cielo. Nero di notte, azzurro di giorno, grigio nelle giornate nuvolose, rosso e dorato all'alba ed al tramonto. Il colore del cielo è un effetto della combinazione di due elementi: l'inclinazione dei raggi solari rispetto al nostro occhio (ovvero, il momento della giornata in cui guardiamo il cielo) e la composizione dell'atmosfera. Un terzo elemento, il tipo di radiazione proveniente dal sole, per semplicità daremo per scontato che sia stata più o meno sempre la stessa, almeno nell'ultimo paio di miliardi di anni.
L'inclinazione dei raggi solari varia, ovviamente, nell'arco della giornata, legata alla rotazione solare. Il mezzo aereo tende sempre a diffondere la luce che lo attraversa, e questo processo di diffusione favorisce la zona di lunghezze d'onda che chiamiamo "celeste" (proprio perché dà il colore al cielo) rispetto alle altre. Ciò spiega come mai il colore "tipico" del cielo in pieno giorno sia azzurro. Quando i raggi sono relativamente bassi (come all'alba ed al tramonto), la luce solare che raggiunge i nostri occhi deve attraversare una fascia di atmosfera più spessa, e risulta maggiormente dispersa, in particolare nelle bande di colore a lunghezza d'onda maggiore (blu e viola): il risultato è un cielo che ci appare più carico nelle tonalità giallo-rossastro.
Se il colore apparente del cielo è legato all'inclinazione dei raggi solari, può la variazione dell'asse di rotazione terrestre incidere sul colore del cielo? Il pianeta subisce delle oscillazioni nei suoi parametri orbitali che variano lievemente alla scala delle decine di migliaia di anni. Ogni 40 mila anni circa, l'asse di rotazione terrestre varia la propria inclinazione rispetto al piano dell'orbita attorno al Sole di circa un paio di gradi. Una tale variazione non incide significativamente sul colore del cielo, quindi è trascurabile.
Pertanto, alla fine, l'unico vero elemento che incide sul colore del cielo (a parte le variazioni giornaliere e legate al meteo) è la composizione dell'atmosfera.
Più densa è l'atmosfera e maggiori saranno gli attori in grado di disperdere/diffondere la luce nelle sue varie lunghezze d'onda. Non occorre che l'atmosfera sia particolarmente densa per aver un colore, come dimostra Marte, la cui atmosfera, ben più rarefatta di quella terrestre, ha comunque un colore caratteristico legato alla sua composizione. Composizione che, fondamentalmente, dipende dall'ossigeno, dal vapore acqueo e dal pulviscolo. L'azoto non è un attore rilevante in questo discorso. L'anidride carbonica è trasparente alla luce visibile, ed impatta principalmente (come ben sappiamo, ormai) sull'infrarosso (e quindi, sul calore dell'atmosfera, non sul colore).
La variazione dell'ossigeno atmosferico nel passato geologico è stimabile dall'analisi geochimica di varie rocce sedimentarie. Si ritiene che in origine, la sua abbondanza in atmosfera fosse quasi nulla, e che sia andato aumentando in particolare durante l'ultimo mezzo miliardo di anni. In questo intervallo di tempo, la variazione della concentrazione dell'ossigeno più significativa rispetto ad oggi è ipotizzata alla fine del Paleozoico, in particolare nel Carbonifero (300 milioni di anni fa), con valori di concentrazione fino ad una volta e mezzo quelli attuali. Ciò deve aver inciso in modo significativo sul colore del cielo, aumentando la dispersione delle lunghezze d'onda a vantaggio dell'azzurro (di giorno) e dei rossi (all'alba ed al tramonto). Possiamo immaginare che il cielo nel Carbonifero fosse "più azzurro" (ovvero, più saturo di tale gamma di colore) rispetto ad oggi?
Il vapore acqueo è maggiormente legato alle dinamiche climatiche e metereologiche, e quindi è ragionevole che nel passato abbia inciso sul colore del cielo alla pari di oggi, sotto forma di nubi, foschie e nebbie. Forse, durante le fasi di clima umido (come l'Evento Pluviale Carnico, a metà del Triassico Superiore), il cielo era in qualche modo più grigio e triste, più "autunnale" rispetto ad altri momenti della storia planetaria?
Un altro elemento, in parte legato indirettamente all'ossigeno, è la quantità di pulviscolo disperso in atmosfera. Un aumento del particolato difatti aumenta la dispersione della luce, a vantaggio delle tonalità giallo-rossastre. Tale aumento può essere dovuto ad attività vulcanica particolarmente intensa (ad esempio, nei periodi in cui sono attive delle Grandi Province Ignee, come i traps del Deccan di fine Cretacico) oppure come conseguenza di una elevata concentrazione di ossigeno atmosferico, che favorisce la combustione della materia organica, lo sviluppo di grandi incendi e la dispersione di fuliggine, come risulta da vari depositi sedimentari della seconda metà del Mesozoico. Durante buona parte del Cretacico, in molte zone del pianeta, la combinazione di clima relativamente arido, carico di polveri, e la maggiore frequenza degli incendi potrebbe aver prodotto un cielo più rosso-giallastro, dovuto alla maggiore sospensione di particolato?
Se combiniamo questi elementi, emerge un quadro (letteralmente) molto inquietante: i momenti della Storia della Vita durante i quali il cielo deve essere stato più meraviglioso, carico di tonalità azzurre e caratterizzato da albe e tramonti dai colori più accesi e vividi, sono probabilmente quelli durante i quali si sono svolte le maggiori estinzioni di massa.
La fine del Permiano, grazie all'elevata concentrazione dell'ossigeno e l'aumento del particolato emesso dai traps siberiani, deve essere stato un paradiso per qualunque pittore di paesaggi, ma un inferno per il resto dei viventi, sottoposti alla più grande crisi biotica del Fanerozoico. Discorso analogo per la fine del Triassico e del Cretacico, durante l'attivazione di alcune Grandi Province Ignee, ritenute causa di due tra le maggiori estinzioni di massa.
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