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30 giugno 2021

Il declino è nel modello, non nei dinosauri

Chenanisaurus se ne frega di quel che accade in Laramidia (foto (c) N. Longrich).


A volte, ho l'impressione che il mondo della paleontologia sia il protagonista de "Il Giorno della Marmotta" (in originale, "Groundhog Day"), e che sia costretto a rivivere ciclicamente sempre il medesimo evento, con i suoi riti, tematiche, dibattiti e diatribe, iterate quasi meccanicamente.

Ci sono "dibattiti" che si trascinano per generazioni. Le estinzioni di massa sono cicliche? Le estinzioni di massa sono graduali o improvvise? I dinosauri erano endotermi? 

Il mio lato epistemologico, schizofrenicamente in lotta con quello paleontologico, di solito si domanda "ha senso porsi queste domande?".

Curiosamente, altre "diatribe" hanno smesso di essere dibattute: nessuno con un minimo di cognizione paleontologica si sogna più di discutere seriamente se gli uccelli siano o no dei dinosauri, nonostante che questo dibattito fosse molto acceso durante gli anni '80 e buona parte dei '90 del secolo ventesimo.

Cosa distingue il dibattito sulle estinzioni o sul metabolismo dei dinosauri rispetto a quello sull'origine degli uccelli?

I primi riguardano sistemi che sono molto complessi e di cui abbiamo un dato relativamente frammentario, nel secondo caso abbiamo un sistema molto più semplice di cui abbiamo moltissimi dati. Di conseguenza, in un caso abbiamo un ampio margine di incertezza, nel secondo non abbiamo quasi margine di incertezza. Mi spiego meglio con esempi.

Stabilire le origini degli uccelli richiede identificare una serie di fossili che mostrano la progressiva accumulazione delle caratteristiche degli uccelli in accordo con la teoria evoluzionistica. Questi fossili sono presenti in abbondanza, e confermano che gli uccelli sono arcosauri dinosauromorfi dinosauri saurischi theropodi tetanuri coelurosauri maniraptoriformi pennaraptori paraviani avialiani. Per demolire questo scenario fondato direttamente su prove fossili occorrerebbe una tale quantità di prove contrarie, ad oggi del tutto assenti, che si può senza problemi considerare la discussione chiusa.

Stabilire se i dinosauri fossero endotermi invece richiede una serie di analisi che non possiamo fare direttamente sui fossili, e quindi si traduce nel cercare nei fossili delle indicazioni indirette dello stato metabolico dell'animale. Queste indicazioni indirette richiedono una serie di modelli matematici che legano le osservazioni nei fossili con i fenomeni che negli animali viventi sono legati al metabolismo. Di conseguenza, dedurre il metabolismo nei dinosauri significa cercare di stimare quanto i fossili si conformino a modelli matematici che abbiamo elaborato per legare metabolismo e fossili. Il cane si morde la coda? Se il modello è sbagliato, qualsiasi misura introduciamo, per quanto accurata e presa in modo meticoloso, il risultato sarà sbagliato. Prima considerazione: un valore numerico, per quanto ottenuto in modo rigoroso matematicamente, è del tutto privo di significato biologico utile per la discussione se si basa su un modello infondato biologicamente. 

Lo studio delle dinamiche della biodiversità nel tempo geologico è ancora più complesso!

Un secondo fattore, che incide sulla correttezza di un modello paleontologico che si proponga di dedurre qualche informazione su fenomeni biologici delle specie estinte, è il filtro geologico che limita a priori l'informazione fossile. Ovvero, quel filtro che porta un fossile a non essere incluso nel registro paleontologico. Partendo dalla morte dell'animale ed arrivando fino al fossile nel museo, il filtro può essere legato alla località geografica in cui l'animale muore, l'ambiente in cui l'animale muore, le condizioni di seppellimento, le condizioni di formazione della roccia dal sedimento, le condizioni che portano la roccia ad essere esposta, le condizioni che portano la roccia ad essere erosa, le condizioni che portano la roccia ad essere identificata, le condizioni che portano la roccia ad essere inclusa nella documentazione scientifica. Basta che si comprometta uno solo di questi fattori, e quel fossile è irreparabilmente perduto: il fenomeno biologico originale non diventerà mai un dato paleontologico.

Stimare le dinamiche a larga scala, quelle che coinvolgono intere linee evolutive per milioni di anni a livello globale, richiede un'enorme quantità di dati. Forse, talmente enorme che nessuna civiltà sarebbe in grado di raccoglierla e usarla in modo sensato (notare l'enfasi!). Non fraintendetemi, non sono un disfattista assoluto. Il dato paleontologico è sì enormemente lacunoso, ma questa lacuna ha effetti differenti per lo studio di fenomeni differenti. Come mostra l'esempio della discussione sull'origine degli uccelli, il dato presente nei fossili permette di risolvere delle diatribe evoluzionistiche (non tutte, almeno per ora). Bisogna avere l'onestà di riconoscere cosa possiamo e cosa non possiamo chiedere in modo dignitoso ai fossili. 

Qualcuno forse soffre di una forma di invidia della biologia e vorrebbe usare i fossili come se fossero campioni biologici? Temo che in certi ambienti accademici, questa sia una patologia diffusa.

Il registro fossilifero fornisce un tipo di informazione asimmetrica. Basta un fossile per dimostrare la presenza di una specie dentro l'unità stratigrafica A. Ma se quel fossile manca, non abbiamo modo di sapere se tale mancanza sia legata ad uno dei fattori citati prima, che hanno "cancellato" la documentazione, oppure se tale mancanza sia la prova che effettivamente tale specie era assente al tempo e luogo passato corrispondente all'unità stratigrafica A. Per quanto frustrante, dobbiamo sempre tenere a mente che il destino della grandissima maggioranza degli esseri vissuti nel passato è di non lasciare alcuna traccia della sua esistenza.

Ecco che per tentare di ovviare a questa asimmetria nella interpretazione del registro fossilifero, sono stati introdotti dei modelli matematici che cercano di stimare le dinamiche a larga scala dei fossili al netto del lacunoso registro fossilifero.

Sarò vecchio e all'antica, ma continuo a pensare che questi modelli matematici siano intrinsecamente fallimentari. Non nego l'utilità dei modelli matematici, e non nego il dignitoso tentativo di ricostruire le dinamiche passate usando potenti strumenti di calcolo, ma la sentenza resta tale: questi modelli falliscono per la loro stessa natura di simulatori di informazione a partire da ciò che già conosciamo.

Il peccato originale di questi modelli matematici è l'illusione che il fenomeno che essi pretendono di ricostruire si risolva all'insieme dei parametri inclusi nel modello ed alla mera estra/inter-polazione dei dati a disposizione. 

Ad esempio, dato che in Natura le specie hanno distribuzione e abbondanza eterogenea e spesso fortemente asimmetrica (per cui possiamo avere poche specie abbondanti assieme a tantissime specie relativamente rare in termini di abbondanza), può un modello rendere conto di tale eterogeneità nella stima della preservazione fossile? Temo di no, se non col rischio di imporre a priori al modello di produrre un risultato già incanalato verso ciò che vorremmo determinare.

Prendiamo i modelli che partendo dalla documentazione nota relativa alla distribuzione geografica dei dinosauri alla fine del Cretacico deducono le dinamiche relative alla diversità delle specie nel tempo.

Se il modello si basa sulla distribuzione nota dei fossili, ma si propone di stimare la diversità passata, esso deve in qualche modo tener conto dei fattori che erodono (sia in senso letterale che figurato) l'informazione originaria nel registro fossile. Ma se il modello incorpora questi fattori, esso deve tener conto del fatto che questi fattori sono essi stessi stimati a priori, ovvero, si basano su come noi ci aspettiamo che il registro fossilifero sia stato eroso e risulti incompleto. Il cane torna a mordersi la coda! La stima che cerca di compensare la lacuna si basa su quanto noi intendiamo che la lacuna sia esistente.

Ma c'è anche un altro elemento del problema, spesso del tutto ignorato (o sconosciuto) da una certa parte del mondo paleontologico, elemento che è alla radice stessa della paleontologia, della sua impossibilità ad essere ricondotta unicamente ad una (paleo)biologia. Un elemento che mina alla radice molti di questi modelli sulla biodiversità del passato.

Quanto incide, nella nostra stima della biodiversità fossile, la nostra concezione di unità stratigrafica? Questa, che pare una domanda astrusamente filosofica, in realtà ha una enorme gravità paleontologica.

Se i modelli matematici assumono che una unità stratigrafica sia "corrispondente" ad una associazione biologica, qualora tale corrispondenza venga meno, il modello di stima fallisce miseramente.

Esempio banale: se assumo che due formazioni dalla medesima regione, A e B, documentino due momenti separati nel tempo, posso usare la diversità fossilifera tra le due formazioni per stimare una variazione della diversità nel tempo in quella regione. Ma se in seguito dimostro che A e B non sono due momenti del tempo ma solamente due diversi contesti di fossilizzazione della medesima regione nel medesimo intervallo di tempo (contesti con differenti condizioni di fossilizzazione, spesso specie-specifici), allora l'intera narrazione della variazione di diversità risulta falsificata: a quel punto, nulla vieta che nel medesimo momento geologico siano esistite parte delle specie di A e parte delle specie di B, forse persino nelle medesime zone. Il dato "stratigrafico" preso come analogo di un censimento biologico risulta quindi impossibile da inserire nel modello di stima della diversità biologica. Il modello, così elegante in teoria e così sensato biologicamente, risulta del tutto arbitrario e insostenibile paleontologicamente, ovvero proprio per il contesto per il quale è stato creato.

Infine, qualsivoglia modello biologico applicato ai fossili deve sempre essere coerente con la natura storica della paleontologia. 

Ad esempio, se il tuo modello deduce che i dinosauri fossero in graduale declino di biodiversità da ben 10 milioni di anni prima dell'impatto che chiude il Mesozoico, mi deve anche spiegare perché poi i mammiferi, che prendono il posto dei grandi dinosauri in termini di biodiversità, aumentano esponenzialmente in modo improvviso solo dopo l'impatto che chiude il Mesozoico. Per 10 milioni di anni essi non paiono notare la crisi di coloro a cui poi prenderanno il posto? Qualcosa non mi torna.

Il modello sarà pure matematicamente elegante, ma produce paradossi paleontologici, la cui soluzione deve essere inclusa nel conto da pagare. Se per spiegare l'estinzione dei dinosauri produco il paradosso del ritardo nell'affermazione dei mammiferi, il bilancio netto del tuo modello matematico, per me che sono un palentologo vecchio stampo, è ancora in passivo.

3 commenti:

  1. Molto interessante e spiegato in modo chiaro.
    La paleontologia ha dei limiti a quello che può fare ma alcuni scienziati non si rassegnano.
    Diego Fondacaro

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  2. Beh direi che è un discorso che si può estendere a tutte le discipline scientifiche.
    Con i dovuti distinguo ovviamente.

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  3. Marco Tedesco4/7/21 12:10

    Molto periferica come aggiunta ma: uno studio recente suggerisce che l'"esplosione" dei Therii (in particolare il loro superamento di "limiti" morfologici che avevano mantenuto nel Mesozoico) sia legata in maniera importante all'estinzione di altri mammaliaformi, che viceversa non erano altrettanto "limitati" (Brocklehurst et al. 2021).

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