Dettaglio del murale "The Age of Reptiles" di R. Zallinger |
Gli occhi degli animali sono costituiti in maggioranza da parti molli, spesso molto delicate, che si decompongono rapidamente con la morte dell'animale, impedendone la fossilizzazione. Ad eccezione di parti ossee, come la cavità oculare e l'anello sclerotico, non abbiamo quindi tracce dirette degli occhi dei dinosauri. Possiamo però dedurre alcune caratteristiche generale degli occhi dei dinosauri avvalendoci della inferenza filogenetica, andando quindi a confrontare gli uccelli con gli altri rettili, con l'ipotesi che quelle caratteristiche degli occhi condivise sia dagli uccelli che dai rettili (in particolare, i coccodrilli) è ragionevole supporre che fossero presenti anche nei dinosauri. Questo, ovviamente, non esclude la possibilità che certi gruppi di dinosauri abbiano evoluto particolarità nei loro occhi, condizioni che, purtroppo, non possiamo identificare nei fossili, e che quindi non conviene discutere.
Gli occhi sono costituiti da una regione scheletrica che li contiene, delimitata da una serie di ossa del cranio (sulle cui superfici è possibile identificare dei correlati osteologici di elementi molli legati all'occhio), dalla traccia del nervo ottico (il secondo nervo cranico) sulle ossa del neurocranio, dal bulbo oculare vero e proprio, e dal sistema di muscoli e tegumenti che permettono il movimento, l'accomodamento, la lubrificazione e la protezione dell'occhio stesso. Ad eccezione delle ossa e della traccia del nervo ottico, quasi tutte queste parti non lasciano tracce fossili.
In generale, sia gli uccelli che gli altri rettili hanno occhi relativamente voluminosi che occupano un'ampia parte della cavità orbitale. Questo è probabilmente vero anche per la maggioranza dei dinosauri, ad eccezione di quei taxa che hanno cavità orbitali molto schiacciate ed ellittiche, come ad esempio la maggioranza dei grandi theropodi: in questi casi, è plausibile che il bulbo oculare occupasse solo la parte dorsale della cavità orbitale. In alcuni taxa, come gli abelisauridi, i carcharodontosauridi e alcuni tyrannosauridi, l'osso postorbitale presenta una proiezione del proprio margine oculare che probabilmente delimitava il margine ventrale del bulbo oculare, e che quindi ci dà informazioni sulla area della cavità orbitale che era occupata dal bulbo. In alcuni di questi theropodi, è presente anche un secondo processo nel margine orbitale dell'osso lacrimale, con funzione analoga.
In molti fossili di dinosauri è conservato anche l'anello sclerotico, costituito da una serie di placche ossee che formavano una cintura protettiva del bulbo oculare: la dimensione della cavità interna descritta da questi anelli ci dà quindi una misura diretta della dimensione massima della parte del bulbo esposta verso l'esterno (al netto delle palpebre).
Sia i rettili che gli uccelli hanno bulbi oculari che non sono perfettamente sferici, ma più schiacciati e appiattiti nella parte esterna. Anche questo è ragionevole fosse il caso nei dinosauri mesozoici. E come nelle specie odierne, è presumibile che vari muscoli permettessero di variare la curvatura della cornea per la messa a fuoco. Dato che sia i rettili che gli uccelli dispongono di muscoli in grado di muovere i due bulbi dentro la cavità orbitaria in modo indipendente (con diversi gradi di mobilità, massima nei camaleonti, minima in molti uccelli), è plausibile che anche i dinosauri fossero in grado di muovere i propri bulbi in modo indipendente. Probabilmente, le specie con crani ampi e pesanti optavano per una maggiore mobilità dei bulbi, rispetto agli uccelli moderni che invece variano la direzione degli occhi in gran parte muovendo l'intera testa. In generale, sia i rettili che gli uccelli hanno bulbi oculari che sporgono rispetto alla cavità orbitaria: è plausibile che lo stesso valesse anche per i dinosauri mesozoici. Questo elemento è dedotto indirettamente anche dalla abbondanza di protezioni ossee sul tetto ed ai lati dell'orbita in molti crani di dinosauri, specialmente le forme dotate di corna o protuberanze: si tratta della risposta adattativa alla presenza di bulbi oculari esposti in animali che andavano incontro a frequenti scontri e ferite sulla testa.
Sia gli uccelli che i coccodrilli hanno tre palpebre: una dorsale, relativamente rigida, una ventrale più mobile, che è quella più impegnata a "chiudere" l'occhio, più una terza palpebra semitrasparente, che scorre lateralmente, inserita sul margine anteriore dell'orbita, e detta "nittitante". Questa ultima è quella che effettivamente lubrifica e "pulisce" l'occhio dell'animale. Pertanto, è plausibile che anche i dinosauri avessero questo insieme di palpebre, con la ventrale a svolgere la principale protezione dell'occhio e la nittitante utilizzata per la pulizia della cornea.
Non è possibile dedurre la forma della pupilla dai fossili. Sebbene gli uccelli tendano ad avere pupille circolari ed ellittiche, i coccodrilli presentano pupille "a fessura", e varie altre forme di pupille sono presenti negli altri rettili: non ci sono quindi motivi per optare una versione rispetto ad un'altra nelle ricostruzioni dei dinosauri. La mera "vicinanza" evolutiva di certi gruppi di theropodi agli uccelli non costituisce una prova che questi avessero pupille "da uccello".
Gli uccelli hanno una visione tetracromatica, ovvero dispongono di ben quattro tipi di pigmento fotosensibile (contro i due della maggioranza dei mammiferi), che permette a questi animali una discriminazione dei colori ben più fine e ampia di quella umana. Nei coccodrilli, è dimostrata la tricromia, con massimo di sensibilità nelle bande del violetto, verde e rosso. Pertanto, è plausibile che tutti i dinosauri fossero almeno tricromatici, se non tetracromatici, e quindi perfettamente in grado di discriminare un'ampia gamma di colori.
Dato che l'acutezza visiva è anche legata alle dimensioni assolute degli occhi, è probabile che gli animali con le orbite in assoluto più ampie, come i sauropodi, gli hadrosauridi e i grandi theropodi, fossero quelli con la vista più acuta e penetrante.
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