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14 dicembre 2019

LA RIVOLUZIONE PIUMATA - VOLUME PRIMO




Vi segnalo il primo volume della serie di libri che sto scrivendo dedicata all'origine ed evoluzione dei dinosauri, dal titolo "LA RIVOLUZIONE PIUMATA".

Questo è il primo volume di una serie dedicata a capire i dinosauri, e non solo a conoscerne nomi e caratteristiche: capire come e perché si siano originati, capire perché il loro successo sia durato 160 milioni di anni, capire come e perché raggiunsero dimensioni enormi, e capire perché essi non siano del tutto estinti, ma popolino ancora oggi la Terra con migliaia di specie. Il primo volume si concentra sull'origine dei dinosauri, ripercorre i primi 80 milioni di anni di storia di questo gruppo, e arriva fino alla comparsa dei grandi predatori giurassici e delle loro ancor più colossali prede.
Il libro è disponibile sia in formato cartaceo che digitale, tramite Amazon.

02 luglio 2019

Rivoluzione nella testa dei dinosauri: più grasso e meno muscoli!

Cranio di Herrerasaurus in vista laterale (sopra) e dorsale (sotto). A sinistra, la interpretazione classica della muscolatura temporale; a destra l'interpretazione di Holliday et al. (2019). In rosso, la muscolatura temporale; in blu, il tessuto adiposo vascolarizzato. Immagini modificate da ricostruzione scheletrica realizzata da C. Abracizinskas.



I dinosauri sono rettili diapsidi, nome che deriva dalla condizione diapside, ovvero, la presenza di due finestre su ciascun lato della regione posteriore del cranio. La più dorsale delle due finestre, detta finestra supratemporale o dorsotemporale, è una apertura circondata da varie ossa, tra cui il frontale ed il parietale, che formano il “tetto” del cranio. La finestra dorsotemporale ha varie forme e proporzioni nei dinosauri. In particolare, in certi gruppi, la finestra si espande in avanti, su parte del tetto del frontale, che si abbassa formando una fossa detta fossa frontoparietale.
Tradizionalmente, la fossa frontoparietale è considerata una espansione della finestra dorsotemporale, la sua continuazione anteriore. La finestra dorsotemporale è la sede del muscolo temporale, che parte dalla mandibole, entra nel cranio a livello della finestra suborbitale, circonda su ogni lato la scatola cranica e si inserisce sul tetto del cranio. Pertanto, la interpretazione classica della fossa frontoparietale è di aumentare la superficie di inserzione del muscolo temporale, e quindi fornire spazio per muscoli ancora più ampi in grado di chiudere la bocca.
Questa interpretazione della fossa frontoparietale è stata recentemente messa in discussione da Holliday et al. (2019). Gli autori hanno analizzato le finestre temporali in rettili e mammiferi (la finestra temporale dei sinapsidi è difatti considerata omologa alla finestra dorsotemporale dei rettili) per determinare quali tessuti la riempiano.
Gli autori notano che nei rettili dotati di finestra dorsotemporale ma privi della sua espansione anteriore (quindi privi di fossa frontoparietale), questa è occupata principalmente da muscoli, in accordo alla interpretazione classica. Al contrario, nei coccodrilli, dove è presente una fossa frontoparietale (sebbene più ridotta che nei dinosauri), la parte anteriore della finestra dorsotemporale (che corrisponde appunto alla fossa frontoparietale) non è occupata dalla muscolatura bensì da tessuto adiposo riccamente vascolarizzato. Questo è simile al tessuto carnoso che forma negli uccelli varie ornamentazioni (ad esempio, la cresta del gallo), e sia negli uccelli che nei coccodrilli ha una funzione legata alla termoregolazione del sangue che scorre intorno al cervello.
Holliday et al. (2019) concludono quindi che la fossa frontoparietale dei dinosauri non sia una area aggiuntiva di inserzione muscolare bensì la sede di tessuto adiposo vascolarizzato. Questa interpretazione ha il pregio di risolvere un paradosso della ipotesi muscolare: se la fossa frontoparietale fosse effettivamente sede di fasci muscolari, questi si sarebbero contratti lungo una direzione perpendicolare a quella del resto del muscolo temporale, e quindi avrebbero avuto poca utilità nel chiudere le mandibole. Rimuovendo questa zona del cranio dal passaggio dei muscoli, il paradosso si elimina alla radice.
L'ipotesi che la fossa frontoparietale sia sede di una zona adiposa vascolarizzata e di possibili ornamentazioni carnose è molto intrigante. Innanzitutto, essa potrebbe essere proprio la struttura carnosa descritta in Edmontosaurus da Bell et al. (2013). Inoltre, la diversa forma e dimensione della fossa nei vari dinosauri suggerisce diversi sviluppi e funzioni del tessuto adiposo sulla testa.
Ad esempio, tra i theropodi, la fossa frontoparietale è molto ampia nei Tyrannosauridae: tradizionalmente, essa era interpretata come un'area supplementare per l'espansione del muscolo temporale, e quindi legata al potenziamento del morso. Nella nuova ipotesi, invece, questa area poteva ospitare una zona riccamente vascolarizzata, e forse persino delle creste carnose che continuavano le ornamentazioni cornee intorno agli occhi. La situazione in altri theropodi è invece opposta: in molti maniraptoriformi e nei carcharodontosauridi, la fossa frontoparietale è praticamente assente, e ciò, invece che indicare una riduzione della muscolatura temporale, potrebbe suggerire un diverso tipo di vascolarizzazione del cranio e la mancanza di ornamentazioni carnose.

Bibliografia:
Bell et al. 2014. A Mummified Duck-Billed Dinosaur with a Soft-Tissue Cock’s Comb, Current Biology http://dx.doi.org/10.1016/j.cub.2013.11.008.
Holliday et al. 2019. The frontoparietal fossa and dorsotemporal fenestra of archosaurs and their significance for interpretations of vascular and muscular anatomy in dinosaurs. The Anatomical Record 10.1002/ar.24218.

17 giugno 2019

3.000.000 di grazie!



Il contatore delle visualizzazioni di blogger mi segnala che il blog ha appena superato 3 milioni di visualizzazioni totali!
Non male per un blog nerd scritto in italiano :-)

Grazie a tutti i lettori.

10 giugno 2019

Una motivazione storica (ma non logica) delle teste dei salamandroni bipedi di Billy World (aka "raptor")



In un post recente, ho mostrato che le ricostruzioni dei "raptor" del Franchise di Billy World siano molto inaccurate (e brutte). Alcune di quelle caratteristiche sono palesi cialtronate, delle grossolane sviste dei realizzatori delle ricostruzioni, ignoranti in anatomia dinosauriana, e non meritano ulteriori commenti. Invece, altre hanno una precisa motivazione storica, abbastanza interessante, e meritano di essere commentate nel dettaglio.
In particolare, parlo della forma della testa dei "raptor": come ho notato nel precedente post, le teste sono troppo ampie, corte e squadrate per essere considerate accurate (dettaglio che poi viene accentuato ulteriormente dalla dimensione esagerata degli occhi e da dettagli "gommosi" della pelle). I dromaeosauridi noti da crani completi ed articolati non hanno simili proporzioni. Quale è la fonte delle ricostruzioni che vediamo nei film? In questo caso, è chiara la "fonte" dell'errore.
Credo che la spiegazione più probabile è che i realizzatori degli animali abbiano semplicemente preso come riferimento il cranio di Deinonychus illustrato in Ostrom (1969), il quale è proprio corto, ampio e vagamente trapezoidale come la testa dei "raptor" dei film. Quindi, quella ricostruzione ha un precedente storico dalla paleontologia, non è campato per aria come altre cialtronate di Billy World. La possiamo ritenere una versione plausibile della testa di Deinonychus, e quindi ammetterla come possibile per un film con dinosauri?
Purtroppo, la testa di Deinonychus in Ostrom (1969) è una ricostruzione da elementi trovati disarticolati, non è basata su un cranio completo, e contiene degli errori che sono stati corretti in seguito, tra gli anni '80 e '90.
I resti descritti da Ostrom (1969) non comprendono un cranio completo né articolato. Ostrom dovette assemblare i vari elementi in base alle conoscenze del tempo, e quindi produsse una ricostruzione che, alla luce dei dati aggiunti nell'ultimo mezzo secolo, la smentiscono. Un confronto tra la ricostruzione di Ostrom (1969) ed i crani completi ed articolati di Linheraptor e Velociraptor sono sufficienti per mostrare in quali elementi la ricostruzione del 1969 sia errata.

1- Il muso è più lungo rispetto alla ricostruzione del 1969. Sia lo jugale che il mascellare di Deinonychus sono incompleti. Ostrom (1969) li collega nei punti preservati (freccia nera a sinistra), ma è evidente che sia l'estremità del ramo posteriore del mascellare che quella del ramo anteriore dello jugale sono mancanti, e quindi i due elementi in origine non contattavano in quel modo. Siccome la parte posteriore del mascellare in Ostrom (1969) è mancante, i denti risultano erroneamente arretrati fino all'orbita: il cranio completo di Linheraptor (al centro) mostra la condizione corretta (freccia nera). Notate che i denti terminano ben prima dell'orbita. Pertanto, il muso altro e corto di Ostrom (1969) è un artefatto dato dall'errata giunzione di due ossa incomplete.

2- Il muso è molto più stretto rispetto alla ricostruzione del 1969. Ostrom disponeva solamente di parti del palato: in particolare, i palatini sono parzialmente preservati. In questo caso, Ostrom (1969) ricostruisce i due palatini come se fossero ossa disposte orizzontalmente, a fare da "soffitto" del palato (frecce rosa). Il risultato è che così facendo, il palato risulta molto ampio, e questo produce un muso molto ampio e trapezoidale rispetto al resto della testa. Tuttavia, nei dromaeosauridi, i palatini sono inclinati in alto rispetto al piano orizzontale del muso, e "sporgono" dentro le finestre antorbitali. Di conseguenza, essi non sono orizzontali, ma quasi verticali (freccia rosa in Linheraptor), e questo riduce marcatamente l'ampiezza del muso, che quindi è molto più stretto che nella ricostruzione di Ostrom (confrontatela con lo spessore dei musi nei crani articolati di Linheraptor e Velociraptor: indicati dai rettangoli verdi).

Il cranio "aggiornato" di Deinonychus è pertanto molto simile a quelli di Velociraptor e Linheraptor: muso lungo e stretto, invece che corto a ampio (da salamandrone).

La domanda, quindi, è perché i realizzatori di questi "raptor" del 2015 abbiano preso a modello una ricostruzione obsoleta di 50 anni fa invece che i crani meglio conservati disponibili entrambi nel XXI secolo...
Ah, già, dimenticavo: chiedere la consulenza ai paleontologi esperti di theropodi è passato di moda. 
E poi, se siete dei fanboy e non ve ne frega niente della paleontologia, c'è la "continuity" che spiega questi obbrobri... peccato che venga smentita in pieno dalle teste dei molto più decenti raptor in Jurassic Park 3, che hanno musi più stretti rispetto ai salamandroni del 2015-18. Mi raccomando,  ora non tirate fuori la storia delle mutazioni genetiche e dei mostri creati apposta per essere obsoleti. Anche se le scemenza si sprecano quando si parla di quel film, io ho ormai deciso che tutti i commenti off topic dei fanboy del Franchise saranno cestinati senza appello.

07 giugno 2019

06 giugno 2019

Billy e il Clonesauro: Con la matita Blu su Blue

Quando, nel 2015, uscì al cinema Billy World e scrissi un post dedicato all'evento, non mi dilungai troppo sulle ricostruzioni dei dinosauri, e mi concentrai sopratutto nel parlare della mia impressione generale sul film. Tuttavia, sarebbe doveroso fare una digressione anche su alcuni dei dinosauri, sopratutto quelli di specie che sono presenti fin dall'inizio del Franchise iniziato cinque lustri fa. Dopo tutto, non è uno dei dogmi dei fan del film la così detta "continuità anatomica" dal 1993 ad oggi, citata come argomento (anche legittimo, non lo nego) per mantenere l'iconografia a quella originaria del film? Tuttavia, ad una osservazione attenta, questa "continuità" spesso è stata ignorata o violata durante la storia del Franchise.
Ma non è di questo che voglio parlare.
Piuttosto, mi concentro sulla anatomia di uno dei dinosauri del film del 2015, che ritroviamo nel suo seguito del 2018.
Difatti, un personaggio chiave degli ultimi due film è proprio un dinosauro, che ha persino un nome proprio: Blue. L'animale è un "raptor", ovvero, mantenendo continuità con la vicenda del primo film (e del romanzo corrispondente), un Velociraptor antirrhopus, ovvero, un Deinonychus.

Riassunto sintetico del post se non hai voglia di leggere tutto il polpettone. l'animale che vediamo negli ultimi due film è veramente molto inaccurato, oltre che proprio brutto!

Se pensi che le imprecisioni scientifiche si limitino all'assenza di piumaggio ed ai "polsi pronati", no, ti assicuro che la lista è molto più lunga. E non riguarda dettagli minimali che possono dare fastidio solo all'esperto, ma caratteristiche che sono importanti per ricostruire questi animali in modo decente (sicuramente decente se si hanno milioni di dollari di budget e non vuoi limitarti a fare dei mostri): imprecisioni ed errori che non sono "giustificabili" con la storia delle manipolazioni genetiche o altre arrampicate sugli specchi, ma sono unicamente grossolanità di chi, evidentemente, non ha a cuore questo tipo di dettagli (che, invece, sono il marchio del cineasta di classe).

DISCLAIMER senza giri di parole (così da chiarire tutto subito): siccome ormai sono diventato allergico ad un certo tipo di commenti da parte di personaggi che compaiono dal nulla in questo blog solo ed esclusivamente per lamentarsi (a che titolo?) nei post che menzionano il loro feticcio cinematografico, chiariamo subito che se sei un "fanboy" di Jurassic Park & World e vieni qui per lamentarti con ridicole motivazioni da "fanboy", o a parlare di "continuity" o altre scemenze autoreferenti da fanboy, i tuoi commenti saranno automaticamente cancellati. Non mi interessa la tua opinione in merito al mondo di Jurassic Park, dato che il post parla di aderenza con la scienza paleontologica e non di paranoie mentali da collezionista di DVD.  Tale aderenza (o la sua eventuale assenza) tra film e scienza è un fatto, indipendentemente dalle motivazioni della sua assenza o presenza: pertanto, è un argomento meritevole di discussione in un blog dedicato alla scienza paleontologica ed alle sue rappresentazioni mediatiche. 

Se non capisci questo concetto, il problema è solo tuo, non mio!

Questo post è per coloro che, sinceramente, vogliono sapere quanto i così detti "raptor" di Jurassic World siano o meno delle ricostruzioni decenti di un Dromaeosauridae.
Quindi, se ti riconosci nella categoria del "Jurassic fan", non sprecare il tuo tempo a leggere o a commentare con off topic qualcosa che ovviamente non ti interessa conoscere o capire. 

01 giugno 2019

Quale è il colore migliore per non essere visto da un dinosauro predatore?

Con opportuni filtri cromatici, è possibile simulare la differenza tra visione dicromatica e tricromatica. Se il tuo occhio è capace di visione tricromatica, noterai la marcata differenza tra la tigre a sinistra (immagine dicromatica) e la tigre a destra (immagine tricromatica). Lo stesso non si verifica se il tuo occhio è dicromatico (come, ad esempio, nei daltonici). (Immagine da Fennell et al. 2019)
Se ricordate, tempo fa scrissi un post sull'evoluzione della visione cromatica lungo la linea evolutiva dei mammiferi, una storia caratterizzata dalla perdita della condizione tetracromatica (4C), probabilmente durante il Triassico con la "degenerazione" alla condizione dicromatica (2C), tipica della grande maggioranza dei mammiferi, e la successiva evoluzione di una forma alternativa di visione tricromatica (3C) nei primati. Il tema del post si focalizzava sull'iconografia dei sinapsidi non-mammiferi, alla luce della loro possibile condizione tetracromatica, condizione che metterebbe in discussione lo stereotipo "grigio-beige" con cui spesso sono rappresentati questi animali. Vista l'importanza delle colorazione negli animali dotati di visione tetracromatica, concludevo, appare poco plausibile che i probabili sinapsidi tetracromatici fossero così poco colorati, con tinte "da mammifero dicromatico" come ci mostra spesso la paleoarte.

Uno studio pubblicato da Fennell et al. (2019) mi porta a fare un ragionamento ulteriore a proposito del colore, ma questa volta a proposito dei dinosauri.

Fennell et al. (2019) sviluppano un metodo per stimare l'efficacia di diversi tipi di colorazione in diversi contesti ambientali. Gli autori dello studio hanno misurato i tempi di reazione di una serie di osservatori umani di fronte a immagini in "formato" dicromatico e tricromatico. In pratica, i due tipi di formato simulano le differenze cromatiche che un osservatore dicromatico ed uno tricromatico percepiscono di fronte alla medesima immagine. Ovviamente, le persone coinvolte nell'esperimento sono tutte a visione tricromatica, dato che per un dicromatico (come i daltonici) le due immagini mostrate sono quasi indistinguibili, o comunque hanno una differenza di tonalità molto minore di quella percepita da un tricromatico.
Il risultato delle analisi dimostra che i tempi di reazione rispetto all'immagine tricromatica sono minori rispetto a quelli rispetto all'immagine dicromatica. Ovvero, ribaltando la prospettiva, che un osservatore dicromatico è svantaggiato (in termini di tempi di reazione) rispetto all'osservatore tricromatico. Questo studio conferma anche l'usanza dei militari a usare colori mimetici che simulano il tipo dicromatico (come il mix di verde oliva e beige), più difficili da cogliere rispetto alle vistose livree tricromatiche.
L'immagine in alto, che purtroppo non è molto significativa per un soggetto dicromatico, è molto eloquente per l'osservatore tricromatico sulla differente percezione che i diversi tipi di visione comportano. La medesima tigre, che al soggetto tricromatico appare di un colore arancione brillante, letteralmente "sparato" sopra lo sfondo verde, è invece molto più difficile da cogliere se vista dall'occhio dicromatico. (Io sono tricromatico, ed ammetto che fa uno strano effetto vedere una tigre "verdastra" invece che arancione... ma capisco che per il lettore daltonico questa frase appare abbastanza priva di senso, quindi non vado oltre nella digressione).

Fannell et al. (2019) fanno una interessante osservazione: il colore della tigre, che a noi scimmie tricromatiche appare abbastanza vistoso e quindi, paradossalmente, letteralmente svantaggioso per la tigre che voglia sorprenderci, risulta invece piuttosto difficile da cogliere per le tipiche prede di questo animale, che sono tutti grandi mammiferi a visione dicromatica. Ovvero, concludono Fannell et al. (2019) se sei un predatore che vive in un mondo popolato da prede dicromatiche, non subirai una particolare selezione per acquisire una colorazione mimetica, per la banale ragione che comunque le tue prede hanno una scarsa capacità di discriminare le tonalità di colore.

Nota lievemente fuori tema. Gli autori dello studio sono psicologi, non sono biologi evoluzionisti né paleontologi, e quindi non sorprende la loro domanda finale sul "come mai le prede della tigre non abbiano evoluto la visione tricromatica". Il motivo dell'assenza di tricromia è storico, e si trova nel vecchio post che ho citato all'inizio di questo post.

Tornando alla conclusione di Fannell et al. (2019) sulla inutilità di sviluppare una colorazione mimetica in un mondo di prede e predatori dicromatici, non posso fare a meno di cavalcare la suggestione di una simile domanda trasportandola nel nostro amato mondo mesozoico, un mondo popolato da prede e predatori che non sono dei dicromatici, ma sono addirittura tetracromatici!
Ovvero, dato che questo studio dimostra il grande vantaggio della visione tricromatica rispetto alla dicromatica nell'individuare soggetti camuffati, immaginate quale straordinaria pressione selettiva deve aver guidato l'evoluzione del camuffamento in un mondo come quello dei dinosauri, dove tutti hanno una capacità di discriminare i colori di gran lunga superiore a quella che persino noi patetici primati tricromatici possiamo rivendicare rispetto agli altri mammiferi. Se sia prede che predatori coevolvono in un mondo di spietata raffinatezza cromatica, immaginate la straordinaria schiera di livree e sfumature che devono aver prodotto in 150 milioni di anni.

Viene quindi il sospetto che tutte le nostre immagini dei dinosauri, frutto di artisti che sono al massimo osservatori tricromatici, siano sbiadite rappresentazioni della loro reale esuberanza cromatica e mimetica, in maniera analoga con cui un occhio dicromatico non può - purtroppo - cogliere le ulteriori tonalità visibili solamente in tetracromia.

Bibliografia:
Fennell JG, Talas L, Baddeley RJ, Cuthill IC, Scott-Samuel NE. 2019. Optimizing colour for camouflage and visibility using deep learning: the effects of the environment and the observer’s visual system. J. R. Soc. Interface 16: 20190183. http://dx.doi.org/10.1098/rsif.2019.0183

PS del 13/12/2023: Ho rivisto e discusso parte dell'argomento discusso in questo post: 
https://theropoda.blogspot.com/2023/12/tyrannosaurus-era-verde.html

30 maggio 2019

L'eterno ritorno della Sindrome di Clarke-Kubrick: una causa extraterrestre per l'origine dell'uomo? - Episodio 2

L'immancabile ricostruzione "più vera del vero" dei Fratelli Kennis non può mancare per la ipotesi più ghiotta per gli amanti delle ipotesi pseudo-scientifiche


Se il post di ieri non vi fosse bastato per credere che ci sia una bizzarra sindrome che colpisce alcuni astronomi e che li porta a pubblicare assurde ipotesi per spiegare il record paleontologico umano (che, come tutti sappiamo, è uno dei principali obiettivi dell'astronomia!), ecco che in 24 ore esce un altro articolo che conferma i miei timori.
Come spesso accade, io scopro queste pubblicazioni dal baccano mediatico che esse generano, e che le porta sempre in primo piano sui siti di informazione giornalistica, avidi di ipotesi bizzarre e "alternative" che colleghino l'evoluzione dell'uomo e fenomeni extraterrestri. Ovviamente, io non mi fermo alla notizia riportata sul sito giornalistico, che spesso è una deformazione ed esagerazione di uno studio tecnico, ma cerco la fonte originale, l'articolo scientifico vero e proprio che i giornalisti stanno citando (più o meno impropriamente). 
E come il caso di ieri, anche questo non si smentisce: ci sono degli studiosi che hanno veramente pubblicato queste ipotesi. Ma, sopratutto, il mio sconcerto è che una rivista scientifica soggetta a revisione paritaria abbia veramente fatto passare una simile ipotesi!

In questo caso, Chanell e Vigliotti (2019) propongono che le variazioni dell'intensità del campo magnetico terrestre possano avere degli effetti sull'evoluzione della vita sulla Terra e, nello specifico, siano il fattore che ha innescato le estinzioni delle megafaune pleistoceniche, compresa quella di Homo neanderthalensis. Gli autori menzionano tutta una serie di ipotesi obsolete o del tutto prive di evidence empiriche, come la presunta ciclicità delle estinzioni di massa (che comunque sarebbe legata ad altri fenomeni astronomici e non si capisce il motivo di citarla qui), la comparsa degli eumetazoi nell'Ediacariano e la loro radiazione nel Cambriano (ma veramente?), la scomparsa della densa atmosfera su Marte all'inizio della sua storia (ma veramente?), la presenza di alghe rosse nei laghi alpini (what?) ed il colore della sudorazione negli ippopotami (WTF?). Non sto scherzando: gli autori praticano quella che viene detta "cherry picking" ad una scala astronomica: citano episodi o fenomeni abbastanza a caso, basta che si conformino alla loro ipotesi e quindi servano a "motivare" lo scenario che stanno proponendo. No, signori, non è così che si trovano sostegni scientifici alla propria idea...
Ma, nello specifico, quale idea?
L'idea di fondo è che durante le periodiche variazioni di intensità e orientazione del campo magnetico terrestre, si indebolisca la "protezione" dalle radiazioni cosmiche e solari (come particelle cariche e raggi ultravioletti) fornita dal campo magnetico terrestre, e che questo produca delle estinzioni.
In breve, è ancora l'eterno ritorno di spiegazioni semplici di natura astronomica per spiegare complessi fenomeni di natura paleontologica. Ovviamente, applicati alla paleontologia umana.
Gli autori completano la torta con una ciliegina genetica, la presunta differenza di sensibilità alla radiazione ultravioletta tra uomo moderno e neandertaliani (che, ovviamente, sarebbe deficitaria nei neandertaliani), come motivo dell'estinzione di questi ultimi intorno a 40 mila anni fa, durante un evento di indebolimento del campo magnetico terrestre, con conseguente abbassamento dello scudo cosmico contro i nocivi raggi cosmici.

La faccenda si rivolve subito: Homo neanderthalensis NON si estingue globalmente 40 mila anni fa. Non ci sono prove di una estinzione simultanea e completa di questi ominidi in tutta l'Eurasia nel medesimo momento, bensì una scomparsa differenziale in zone differenti, e questo smentisce una causa improvvisa a scala globale e di origine astronomica. Già questo chiude la questione, a meno che i nostri astronomi non abbiano prove che in certe zone vendessero delle creme anti-UV per pelli sensibili già dalla metà del Paleolitico.
Inutile rimarcare che questa ipotesi fa acqua da così tante parti da non meritare nemmeno una discussione critica. 
Non ci sono prove paleontologiche che il tasso di estinzione sia collegato a variazioni del campo magnetico terrestre. E per chiarire la faccenda ai non addetti ai lavori, se una simile relazione esistesse, lo sapremmo bene da molti decenni: la stratigrafia ha 3 rami principali, e ben DUE di questi rami principali studiano i fossili e il campo magnetico terrestre: la Biostratigrafia e la Magnetostratigrafia. Ma come, i due fenomeni non vanno a braccetto? Se le variazioni dell'uno variano l'altro, avrebbero dovuto essere unificati qualora le estinzioni biologiche (documentate dalla Biostratigrafia) fossero finemente correlate con le variazioni del campo magnetico terrestre (documentate dalla Magnetostratigrafia). Ma così non è.
Il grafico sotto è un tipico diagramma magnetostratigrafico, che testimonia la periodica variazione dell'intensità e polarità del campo magnetico terrestre, registrata nelle rocce. Notare come il campo magnetico abbia sovente delle improvvise (alla scala geologica) variazioni e si inverta, per poi restare stabile per intervalli più o meno lunghi. In base all'ipotesi di Chanell e Vigliotti (2019), ad ogni variazione dovremmo avere una qualche crisi biotica più o meno marcata. Eppure, così non è.
Dove sono queste continue estinzioni di faune fossili?


Fonte

Inutile rimarcare una piccola regola del metodo scientifico: non basta trovare una eventuale sovrapposizione tra un evento fisico ed un evento biologico per aver "scoperto" una legge della natura. Non basta proporre un bizzarro meccanismo che funziona prendendo come prove solamente i casi che fanno comodo e ignorando il resto dell'universo che invece smentisce tale relazione di causa ed effetto. Occorre avere una robusta corrispondenza, che sopravvive a test statistici di controllo, la quale poi deve avere anche una precisa motivazione in accordo con le teorie fisiche consolidate, che spieghi perché tale corrispondenza si osserva (ammesso che si osservi). In questo caso, nemmeno l'oggetto principale della ipotesi, la scomparsa dei neandertaliani, avviene nel momento in cui, secondo questo scenario, avrebbe dovuto verificarsi. Nulla sta in piedi!
Il sudore dell'ippopotamo, la dissoluzione dell'atmosfera marziana e la inesistente ciclicità periodica delle estinzioni non sono sufficienti per costruire una teoria scientifica che non è nemmeno in grado di giustificare la diacrona scomparsa dei neandertaliani nell'arco di migliaia di anni.


29 maggio 2019

L'eterno ritorno della Sindrome di Clarke-Kubrick: una causa extraterrestre per l'origine dell'uomo?


Non accetteremo mai fino in fondo il fatto che siamo animali e che non veniamo dalle stelle...

L'astronomia è una disciplina meravigliosa, e sotto vari aspetti simile alla paleontologia. In ambo i casi, dobbiamo trarre informazioni indirette, giunte fino a noi (dal passato profondo o dallo spazio profondo) per tentare di interpretare e ricostruire fenomeni dei quali non possiamo avere una esperienza diretta (a causa delle enormi distanze spaziali o temporali).
In alcuni casi, le due discipline si intersecano e possono influenzarsi a vicenda. Ad esempio, fu l'anomala concentrazione di metalli del gruppo dell'iridio, rinvenuta esattamente in corrispondenza dei livelli datati al passaggio Cretacico-Paleogene, a indirizzare i paleontologi verso l'ipotesi che l'estinzione di massa della fine del Maastrichtiano fosse dovuta a qualche causa extraterrestre in grado di giustificare tale anomalia chimica.

Il fatto che, occasionalmente si possa collegare un fenomeno astronomico a momenti del passato geologico non significa che la spiegazione di qualsivoglia evento avvenuto in quel momento abbia una causa extraterrestre. Correlazione e contemporaneità non implicano causazione. E questo è particolarmente vero quando si vuole tentare di correlare eventi che si svolgono ad una scala di ore-giorni-anni con fenomeni che richiedono milioni di anni per svolgersi. Il risultato di simili associazioni logiche è infatti il trasformare un articolo scientifico serio in una pagliacciata ingenua.

Ad esempio, può accadere che rispettabilissimi astronomi e astrofisici partano col piede giusto descrivendo dei fenomeni astronomici di loro competenza, per poi finire impantanati in una ridicola argomentazione che non è il loro campo: l'evoluzione dell'uomo.
In una breve nota sul Journal of Geology, Melott e Thomas (2019) partono dall'osservazione che livelli arricchiti da isotopi del ferro, risalenti a circa 2 milioni di anni fa, indichino come causa di tali isotopi l'esplosione di una supernova. L'origine astronomica di questi isotopi particolari è ben documentata, e si collega con le enormi energie liberate dalle supernove, capaci di innescare processi di nucleosintesi altrimenti impossibili nei nuclei stellari "tradizionali".
Fin qui, l'argomento è plausibile e ben fondato. Purtroppo, poi inizia la scivolata nel grottesco (fanta)scientifico, con capitombolo finale nel ridicolo. Gli autori calcolano che l'energia ionizzante liberata da queste esplosioni di supernova possa aumentare la frequenza di fulmini in atmosfera. Siccome i fulmini sono la principale causa naturale di incendi, questo risultato implica quindi che le esplosioni di supernove possano aumentare la frequenza degli incendi sulla Terra. Ma in quale quantità? Sarebbe un aumento significativo e capace di generare effetti rilevanti sull'ambiente? Gli autori arrivano addirittura a sostenere che l'aumento nella frequenza di incendi abbia avuto un ruolo nei cambiamenti ambientali pliocenici, in particolare l'espansione delle savane a scapito delle foreste. Dato che l'evoluzione degli Hominini in Africa è tradizionalmente legato alla possibile espansione di questi primati in ambienti di savana, gli autori arrivano quindi a collegare (e sostenere come un'idea meritevole di indagine) le esplosioni di supernove all'evoluzione umana.

Non occorre un paleoantropologo per dire che questa ipotesi è ridicola.

Innanzitutto, anche ammettendo una aumentata frequenza di supernove, e una possibile intensificazione della produzione di fulmini in atmosfera, ogni singola esplosione è un evento episodico che non può comportare effetti a lungo termine. Gli autori sostengono che le fasi di ionizzazione atmosferica indotte da supernove potrebbero durare dai 10 ai 100 mila anni. Questo non è sufficiente per indurre quei fenomeni che noi osserviamo alla scala dei milioni di anni. 
Potrebbe un fenomeno di questa portata indurre l'espansione delle savane?
No, perché gli incendi non sono la causa dell'espansione delle savane, bensì sono una conseguenza dell'espansione delle savane. A partire dal Mio-Pliocene, il clima globale va incontro ad una progressiva aridificazione, dovuta alla deriva dei continenti che porta l'Antartide a isolarsi completamente dagli altri continenti, producendo effetti significativi sulla circolazione oceanica, e alla chiusura della Tetide, con conseguente innalzamento delle catene alpina e himalayana, ed alla apertura della Valle del Rift in Africa orientale, che porta condizioni più secche nella parte orientale del continente nero. Insomma, la frequenza degli incendi eventualmente registrata negli ultimi milioni di anni non deriva da cause astronomiche episodiche ma da dinamiche geo-climatiche terrestri perdurate per decine di milioni di anni.
Voler anche solo sostenere un legame tra supernove, incendi, espansione della savana e origine dell'uomo, è, quindi, una ingenua manifestazione di supponenza a scala astronomica, una piccolo peccato di superbia da parte di chi, non conoscendo i dettagli complessi della storia geologica e naturale della Terra, pensa di poter trovare soluzioni facili e semplici nello spazio.

28 maggio 2019

L'Arte di ritrarre il nostro Stelo

Due diverse visioni del concetto di "ragazza neanderthaliana". A sinistra, un'opera di Tom Bjorklund, a destra, una scultura dei Fratelli Kennis.
Per quanto la paleoarte che rappresenta i dinosauri o altre mitiche creature del remoto passato sia sicuramente una delle più suggestive forme di iconografia scientifica, nessun altro clade fossile può liberare le energie dei veri artisti quanto Hominini*.
Nessun altro gruppo di creature estinte suscita in noi più fascino ed emozione dei nostri parenti più prossimi, gli unici potenziali "esseri umani", nonché rami del medesimo stelo dal quale l'umanità è nata. E proprio per l'enorme carica di suggestione che "gli antenati" hanno in noi, la paleoarte umana è, a differenza di ogni altro tema della iconografia paleontologica, quella dove più potente e prepotente si manifesta l'indole dell'artista talentuoso. 
Non è mia intenzione fare una digressione stilistica, estetica o filosofica, mi limito a connotare due tendenze principali, forse troppo grossolane, che identifico nella paleoarte umana degli ultimi decenni: il "realismo" contrapposto al "idealismo". 
Il realismo, che sovente sfocia nel virtuosismo iper-realistico, ha nei Fratelli Kennis i suoi più famosi esponenti. Il realismo paleoartistico pretende (si illude?) di trasportarci indietro nel tempo per mostrarti gli antichi stem-Homo (Hominini) come "avrebbero potuto essere" dal vivo. La cura del dettaglio anatomico si fa maniacale, il rigore del clima pleistocenico si fa rigore estetico e puritanesimo entropico: il nostro ominide è quindi sporco, abraso, spettinato e solcato da cicatrici. La pelle porta i segni delle sofferenze di una vita selvatica o consumata. Lo sguardo del soggetto è lucido, tagliente, ma spesso velato dal peso della sopravvivenza. 
L'artista qui trasmette, o si diverte a trasmetterci, l'illusione della verosimiglianza. Quella che vediamo, quindi, è la simulazione del reale, così come concepita dalle categorie (esse stesse astrazioni) dell'artista, il quale intende la "rappresentazione" come aderenza ad un principio attualistico per cui il principale motore dell'umanità, ieri come oggi, è lo sporcarsi le mani, il prendere su di sé il peso della vita in tutta la sua asprezza a crudezza. La ruvida scorza degli ominidi dei fratelli Kennis ci ricorda che entropia e caducità sono sempre stati (e lo saranno sempre) i principali motori dell'agire e divenire umano. L'ominide rugoso, solcato e abraso dal sole è quindi, prima di tutto, una rappresentazione dello stato immutabile della condizione umana.

Vi confesso che, per quanto notevoli, le opere iper-realistiche dei fratelli Kennis non mi hanno mai colpito particolarmente. Esse sono sicuramente eccellenti, e non nego l'enorme lavoro di documentazione e realizzazione. Ma sono, e restano, pur sempre dei virtuosismi. Esse portano all'estremo la grande illusione di tanta paleoarte dei nostri tempi: l'illusione di poter "rappresentare" scientificamente qualcosa di ormai perduto, senza "filtri" dati dalla particolare concezione culturale dell'artista. L'illusione di annullare l'artista creatore dietro quella che deve apparire come pura opera della Natura. Quella esigenza (ossessione?) per il dettaglio è quindi, il tentativo di compensare l'enormità del dato reale irrimediabilmente perduto con la mole minuziosa di elementi "immutabili" della condizione umana (la polvere, il sangue, la cicatrice) che possiamo trarre direttamente dall'uomo di oggi per completare l'uomo di ieri. L'artista, pare quasi voglia sminuirsi, ci vuole far credere di aver soltanto rimesso insieme i pezzi del mosaico naturale.

All'opposto del iper-realismo, è invece una forma di arte che definisco "idealismo paleoantropologico", e che ha il migliore esempio nelle opere di Tom Bjorklund. Questa forma di paleoarte umana segue una logica diametralmente opposta a quella del realismo. Invece di colmare le enormi lacune informative traendole dai dettagli minuti della vita reale che si ritiene siano "invarianti" della condizione umana, l'idealismo paleoartistico trasfigura l'antico alla luce delle categorie ideali moderne. Le meravigliose madonne paleolitiche di Bjorklund hanno sguardi, languori e atteggiamenti sfacciatamente moderni. Questo non è realismo! Non ci sono dubbi che, nel Pleistocene, nessuna donna (o "stem-donna") di quel tempo avesse l'aspetto, l'atteggiamento e lo sguardo di una dama europea del XVIII secolo. Eppure, è questo che Tom Bjorklund infonde nelle sue realizzazioni. Sia chiaro, egli non trascura minimamente la cura anatomica e il dettaglio, ma, a differenza dei Fratelli Kennis, essi non sono il fine dell'opera, bensì, il dettaglio scientifico è il supporto e l'impalcatura per permettere all'Anima di una Dama Moderna di essere infusa in un corpo pleistocenico. L'ideale moderno della donna, della paternità, del bimbo, tutte categorie che difficilmente avremmo potuto identificare e attribuire in popolazioni distanti 20, 30, 100 mila anni da noi, sono così trasfigurate (e trasfigurano) nella paleontologia umana.
Per questo motivo, l'Arte di Tom Bjorklund è superiore a quella dei fratelli Kennis. Chiunque, data la giusta quantità di informazioni paleontologiche e il necessario background tecnico, può tentare di realizzare una opera di iper-realismo paleoantropologico. Ma per creare una Dama Pleistocenica occorre quel ulteriore salto concettuale che distingue la formulazione di una teoria universale dalla mera raccolta minuziosa dei dati. 
Tom Bjorklund ci trasmette una Idea dell'uomo, non solo una rappresentazione della sua Realtà perduta. Ed è in questa maggiore tensione all'ideale sopra la tecnica, che noi riconosciamo l'artista e non il mero realizzatore di ricostruzioni. 


*Hominini si può considerare un clade fossile, dato che oggi è formato da una singola specie, per quanto molto pervasiva.

24 maggio 2019

Il pulcino di Hoatzin non è un fossile vivente

Pulcino di Hoatzin. Notate le due dita della mano libere ed artigliate. (Fonte: Nature Picture Library)
L'Hoatzin (Opisthocomus hoatzin) è uno degli uccelli più amati dai naturalisti. Tra le varie caratteristiche di questo bizzarro uccello amazzonico è significativa la presenza, nel pulcino, di dita della mano relativamente libere e dotate temporaneamente di ungueali. La presenza di ungueali nella mano non è particolarmente bizzarra per un uccello moderno, perché si osserva anche in altre specie, come lo struzzo, e vari anseriformi. La relativa mobilità delle dita nel pulcino è invece inusuale per un uccello, dato che essi hanno dita relativamente rigide e prive di capacità prensorie. Nel pulcino di Hoatzin, invece, la mano è in grado di esercitare una seppur blanda capacità prensoria, che il pulcino usa per muoversi tra i rami degli alberi, coadiuvando la normale capacità prensoria del piede tipica degli uccelli arboricoli.
Questa curiosa capacità "quadrupede" del giovane Hoatzin e la presenza di dita libere, hanno sempre affascinato i naturalisti, al punto che, per molto tempo, questo uccello è stato considerato una sorta di "fossile vivente" o comunque un atavismo, il "ritorno" di condizioni ancestrali che rimandano ad Archaeopteryx.
La suggestione era tale che, sovente, lo stesso Archaeopteryx era illustrato con fattezze vagamente da hoatzin, in una sorta di rovesciamento iconografico, che induceva, grossolanamente, a vedere l'intera biologia di questo simpatico uccello sudamericano come "primitiva".
In uno studio recente, Abourachid et al. (2019) analizzano le capacità arboricole e "quadrupedi" del pulcino di Hoatzin.
Se gli autori (biologi) si fossero limitati ad analizzare la biologia di questo peculiare uccello, il loro studio sarebbe stato un eccellente studio ornitologico e morfofunzionale. Purtroppo, gli autori si sono avventurati in una speculazione evoluzionistica che, nel 2019, appare molto retro ed anacronistica. Gli autori notano che le proporzioni delle falangi nelle dita della mano del pulcino di Hoatzin sono molto simili a quelle della mano di Archaeopteryx, e che questi pulcini possano testimoniare il ripristino di una ancestrale capacità locomotoria quadrupede risalente alle più remote origini degli uccelli. Gli autori paiono non resistere alla tentazione di vedere nell'Hoatzin una prova che gli uccelli basali dotati ancora di ungueali nelle mani potessero avere un repertorio locomotorio che includesse anche il quadrupedismo arboricolo. Questa ipotesi potrebbe essere presa seriamente se vivessimo nel 1960 e le origini degli uccelli fossero ancora enigmatiche, e se a parte Archaeopteryx non ci fosse altro che un enorme vuoto paleontologico tra questo uccello giurassico e, da ambo i lati della serie evolutiva, i rettili ancestrali quadrupedi e gli uccelli moderni bipedi e volatori.
Ma oggi siamo nel 2019. E oggi sappiamo che tra Archaeopteryx e gli antenati quadrupedi degli uccelli ci sono almeno 20 stadi evolutivi di forme bipedi, dinosauriane e theropodi, nessuna delle quali mostra alcun adattamento alla locomozione quadrupede arboricola. Partendo dal grado di Archaeopteryx e procedendo indietro nel tempo, abbiamo (e semplificando molto): i primi paraviani simili ad Anchiornis (bipedi), i primi panneraptori simili a Protarchaeopteryx (bipedi), i primi maniraptori simili a Haplocheirus (bipedi), i primi maniraptoromorfi simili a Ornitholestes (bipedi), i primi coelurosauri simili a Guanlong (bipedi), i primi avetheropodi simili ai megalosauroidi (bipedi), i primi averostri simili a Dilophosaurus (bipedi), i primi neotheropodi simili a Tawa (bipedi), i primi saurischi simili a Eoraptor (bipedi), i primi dinosauri (bipedi), ed infine i primi dinosauromorfi: solo questi ultimi sono "ancora" quadrupedi. Nessuno è arboricolo. Pertanto, pensare che in Hoatzin ci sia "latente" un qualche vestigio dell'antenato quadrupede degli uccelli implica - ed è un errore concettuale - ammettere che tale "vestigio" sia stato del tutto latente per almeno 180 milioni di anni (dai primi dinosauri ai primi uccelli moderni), che poi tale "latenza" sia rimasta tale anche quando gli altri gruppi di uccelli moderni si sono diversificati, per poi "risvegliarsi" solamente con Hoatzin.
Come paleontologo che studia l'evoluzione della biologia aviana da quasi 2 decenni, posso assicurare che nessun fossile dal Triassico Superiore in poi avvalora un simile scenario. Nessun uccello vissuto dopo Archaeopteryx ha un qualche tratto "da Hoatzin", il quale, invece, è in tutto e per tutto un uccello moderno. E nessun theropode vissuto prima di Archaeopteryx mostra adattamenti ad una locomozione quadrupede arboricola. In breve, non occorre riesumare bizzarre ipotesi su "caratteri primitivi dormienti" per spiegare la mano di Hoatzin, che è "preistorica" solamente perché a noi piace pensarla tale, e tendiamo a dimenticare che l'ala degli uccelli è pur sempre un braccio rettiliano (e dinosauriano e theropodiano), e che nei giovani uccelli spesso le ossificazioni non sono ancora formate, permettendo quindi una relativa plasticità agli elementi che nell'adulto divengono un singolo complesso funzionale. 
Insomma, il buon senso ci dice che, molto semplicemente, Hoatzin ha evoluto "per conto proprio" una condizione particolare della mano nel suo pulcino, e che questa non ha alcun legame diretto (o nemmeno indiretto) con la antichissima condizione quadrupede che scomparve nella linea aviana di Archosauria già a metà del Triassico, 100 milioni di anni prima di Archaeopteryx e 200 milioni di anni prima degli antenati di Hoatzin. 
Tirare in ballo Archaeopteryx parlando di Hoatzin è - nel 2019 - qualcosa di molto vintage, ma molto improprio.
Anche se è vero che nulla in biologia ha senso se non alla luce dell'evoluzione, questo non implica che si debba sempre e comunque cercare a tutti i costi un "fossile vivente" in ogni animale con qualche caratteristica bizzarra o che, più per tradizione che per altro, a noi piace pensare essere "arcaica". 
Il saper arrampicare sui rami con le dita temporaneamente libere e mobili non rende il pulcino di Hoatzin un frammento di Giurassico che persiste in Amazzonia. 


Bibliografia:
Anick Abourachid, Anthony Herrel, Thierry Decamps, Fanny Pages, Anne-Claire  Fabre, Luc Van Hoorebeke, Dominique Adriaens and Maria Alexandra Garcia Amado  (2019) Hoatzin nestling locomotion: Acquisition of quadrupedal limb coordination in  birds. Science Advances  5(5): eaat0787 DOI: 10.1126/sciadv.aat0787

22 maggio 2019

Nuovi Megaraptori dalla Thailandia - Prima Parte

Scenari filogenetici per i due nuovi theropodi thailandesi (da Samathi et al. 2019)

La Formazione Sao Khua, del Cretacico Inferiore della Thailandia, è una delle più interessanti associazioni a theropodi dell'Asia meridionale. In particolare, essa mostra una intrigante combinazione di forme, dal probabile sinraptoride Siamotyrannus, all'ornithomimosauro basale Kinnareemimus e l'enigmatico possibile spinosaurino Siamosaurus.
Samathi et al. (2019) descrivono due nuovi theropodi da questa formazione, rinvenuti in due località distanti circa 40 km una dall'altra. Il primo esemplare consiste di resti della colonna vertebrale, della mano e della gamba di dimensioni paragonabili ad Australovenator. Tutti gli elementi mostrano caratteri diagnostici dei megaraptori e sono riferiti alla nuova specie Phuwiangvenator yaemniyomi. Il secondo esemplare è meno completo, comprende principalmente elementi della gamba, e si distingue dal primo per caratteri della tibia e dell'astragalo. Esso è riferito alla nuova specie Vayuraptor nongbualamphuensis
Phuwiangvenator è chiaramente un megaraptoriano, probabilmente esterno a Megaraptoridae, ipotesi che è anche confermata dall'analisi di Samathi et al. (2019). L'olotipo di Vayuraptor è più piccolo di Phuwiangvenator, ed apparentemente riferibile anche esso a Megaraptora, sebbene l'analisi di Samathi et al. (2019) non permetta di collorarlo più precisamente di Coelurosauria.
Non ho ancora avuto modo di codificare questi due taxa nella mia matrice, quindi per ora non approfondisco la discussione sulle loro possibili affinità.

- to be continued -


Bibliografia:
Samathi, A., Chanthasit, P., and Sander, P.M. 2019. Two new basal coelurosaurian theropod dinosaurs from the Lower Cretaceous Sao Khua Formation of Thailand. Acta Palaeontologica Polonica 64 (in press).

20 maggio 2019

Quando sei un paleontologo, realmente?



Circa 10 anni fa, fui invitato a partecipare come ospite alla inaugurazione della prima edizione della mostra “Dinosauri in Carne e Ossa”. Gli organizzatori, Simone Maganuco e Stefania Nosotti, mi contattarono alcune settimane prima dell'evento per definire alcuni dettagli della mia partecipazione all'evento. In particolare, siccome la mostra era prettamente paleontologica, mi chiesero se per me non ci fossero problemi ad essere definito “paleontologo” nelle eventuali relazioni e interazioni con il pubblico. A quel tempo, avevo svolto le mie prime ricerche paleontologiche, e pubblicato i miei primi articoli tecnici su materiale fossile. Sebbene mi facesse piacere essere invitato come “esperto”, non mi sentivo ancora “maturo” per tale riconoscimento. A mio avviso, il mio livello di “professionalità” NON era ancora sufficiente per definirmi a tutti gli effetti “un paleontologo”. Ho sempre avuto un enorme rispetto della parola “paleontologia”, e non volevo abusare di una qualifica che stavo ancora maturando. Quindi, risposi loro che, siccome il mio titolo di studio era Dottore in Scienze Naturali, avrei gradito essere definito per quello che effettivamente ero ufficialmente, un naturalista (titolo di studio che ho sempre amato e che sono fiero di portare, anche ora che ho anche acquisito il Dottorato in Scienze della Vita, della Terra e dell'Ambiente). Gli amici di “Dinosauri in Carne e Ossa” compresero la mia titubanza, ma mi risposero che non avrei dovuto nascondere la mia competenza paleontologica, specialmente in quella occasione. Alla fine, trovammo un compromesso, e fui introdotto come “naturalista paleontologo”.

Un ricordo di quella esperienza di un decennio fa.


Perché racconto questo episodio personale avvenuto un decennio fa?

Viviamo in un'epoca in cui è relativamente facile millantare titoli, crediti e competenze che non si possiedono. Basta creare una pagina su internet piena di attribuzioni più o meno tecniche, basta gonfiare il Curriculum Vitae con le più svariate definizioni, basta dichiarare senza averne diritto, di possedere una qualche certificazione, ed ecco che Mister Tizio diventa come per magia “Dottor Tizio”.
Io odio questa pessima tendenza dei nostri tempi, e disprezzo tutti quelli che mentono sulle proprie effettive competenze o qualifiche.
La odio per due motivi.

Il primo, più ovvio, è che spesso queste “attribuzioni” sono false. Capita spesso di leggere notizie di politici che millantano titoli di studio che non possiedono, o di “medici” e guaritori che in realtà risultano essere solo dei ciarlatani e truffatori senza alcuna esperienza in ciò che pretendono di fare. Purtroppo, vedo che Internet ha solo accentuato questa tendenza.
Il secondo motivo, più sottile ma molto più importante, è che questa pessima abitudine va esattamente in direzione opposta a come io ritengo che debbano essere definite e stabilite le competenze e qualifiche.

Non siamo noi che ci “auto-proclamiamo” un titolo o una competenza. Noi riceviamo tale titolo e competenza DAGLI ALTRI.

Nessuno si auto-proclama Dottore in Scienze Naturali. Tu diventi tale perché una commissione di esperti ti ha esaminato, giudicato e proclamato. Tu diventi tale perché hai passato decine di esami di valutazione da parte di altrettanti gruppi di valutazione, ognuno formato da esperti in quel particolare ambito.
Tu acquisisci quel titolo, quello status, perché sei stato giudicato meritevole DAGLI ALTRI.

E questo discorso deve valere sempre e comunque in ogni ambito.

Non si diventa “paleontologo” solo perché si è appassionati di fossili.
Non si diventa “paleontologo” solo perché si va a scavare in zone fossilifere.
Non si diventa “paleontologo” solo perché si prende in mano dei fossili e si sa il nome di quel pezzo.
Non si diventa “paleontologo” solo perché si scrive un blog sui dinosauri.
Non si diventa “paleontologo” solo perché si partecipa a qualche congresso paleontologico.
Non si diventa “paleontologo” solo perché si ha una laurea che comprende qualche esame sui fossili.
Non si diventa “paleontologo” solo perché si pubblica qualche articolo scientifico.

Si diventa paleontologo perché GLI ALTRI ti hanno riconosciuto tale e continuano a riconoscerti tale.
Si diventa paleontologo perché GLI ALTRI ti hanno riconosciuto e ti identificano come esperto in paleontologia, perché GLI ALTRI hanno maturato la fiducia nella tua competenza in materia.
Si diventa paleontologo perché GLI ALTRI ti chiamano a partecipare ad una spedizione paleontologica.
Si diventa paleontologo perché GLI ALTRI ti chiedono di collaborare allo studio di un fossile.
Si diventa paleontologo perché GLI ALTRI ti chiedono di revisionare un articolo scientifico per una rivista scientifica.
Si diventa paleontologo perché GLI ALTRI ti contattano per avere un commento tecnico su una nuova scoperta paleontologica da pubblicare in un report giornalistico.
Si diventa paleontologo perché GLI ALTRI ti invitano a partecipare ad un evento pubblico in cui la tua competenza ed esperienza è utile alla buona riuscita dell'evento.
Si diventa paleontologo perché GLI ALTRI sono il vero giudice per essere tale. E tanto più quei giudici sono competenti, tanto più il tuo status sarà fondato.

Non sei tu che decidi se sei un paleontologo.
La tua volontà, la tua passione, la tua determinazione e desiderio NON sono ciò che ti rende tale. Sono fondamentali, ma non sufficienti. Tu sei un paleontologo in misura della quantità e qualità di persone che ti hanno riconosciuto tale, ed in proporzione con il numero di eventi, episodi ed occasioni in cui tu sei stato riconosciuto tale DAGLI ALTRI.

Per questo motivo, oggi posso sentirmi sinceramente onorato di essere considerato dagli altri un paleontologo, mentre dieci anni fa, quando ero ancora all'inizio della mia esperienza paleontologica, ero giustamente titubante nel sentirmi chiamare tale, e non avrei osato attribuirmi tale status.

E questo discorso vale per qualsiasi altro titolo, attribuzione, status e carica uno voglia attribuire a sé stesso. E non è importante per il titolo in sé (spesso, purtroppo, il solo feticcio che spinge le persone ad "auto-attribuirsi" titoli), ma perché noi riconosciamo il ruolo e l'importanza dell'esperienza e della competenza nella società, e quindi sentiamo che sia la società stessa la sola a poter riconoscere il nostro valore.
Le auto-proclamazioni lasciamole ai pazzi e ai dittatori.

19 maggio 2019

Billy & il Clonesauro: Per quanto tempo devo tenere nell'incubatrice le uova del mio T. rex?

Jurassic Park (1993) 


Alla fine, ci siete riusciti.
Avete preso l'isola in concessione, costruito i laboratori, installato miglia di inutili e dispendiosi recinti elettrificati, speso metà del budget per pagare un grafico che ha realizzato un banale logo nero e rosso, e, sopratutto, avete un enorme bonus per la sospensione dell'incredulità, che vi permette di realizzare l'enorme salto di improbabilità che vi aiuta per estrarre DNA dall'ambra piena di zanzare (e qualche ammonite) e per clonare dozzine di specie di dinosauro.
Avete queste provette con grumi di cellule, e avete inventato un modo per impiantarle in uova di struzzo non fertilizzate.
Ci siamo, le uova stanno maturando. A breve, schiuderanno ed avremo i nostri dinosauri!

A breve, ma esattamente, quanto a breve? Quanto tempo passava dal momento della deposizione alla schiusa del pulcino di dinosauro?
Lee (2019) si è posto questa domanda (non in questi termini, ovviamente), ed ha utilizzato un modello biologico basato su principi generali della fisiologia e del metabolismo animale per calcolare  - per varie specie di dinosauro - quanto tempo fosse necessario per completare lo sviluppo embrionale (che, di fatto, è il tempo che va dalla deposizione alla schiusa).
Il modello parte dai tassi di crescita di vari vertebrati viventi, in particolare, mammiferi, coccodrilli, uccelli con prole precoce e uccelli con prole inetta. Il modello ha anche preso in considerazione misurazioni prese sui denti di alcuni embrioni fossili di dinosauro, misurazioni basate sul tasso di deposizione dello smalto sui denti in crescita, e curve di crescita per coccodrilli adulti ed embrioni.
Il risultato di questi calcoli indica che in generale i dinosauri non-aviani hanno la fase embrionale che dura approssimativamente come quella di mammiferi e coccodrilli di massa simile. Gli uccelli attuali hanno invece un processo di sviluppo embrionale relativamente più rapido rispetto agli altri dinosauri.
Il modello, come tutti i modelli teorici, è un insieme di formule matematiche ognuna delle quali spesso è una stima approssimata di misure, combinate assumendo una serie di condizioni. Pertanto, come sempre, il risultato di tali modelli va sempre preso con cautela e cognizione di causa, dato che solamente osservazioni dirette sui fossili possono eventualmente fornire le basi per determinare la durate di processi come la schiusa delle uova.

Ovviamente, a quelli del Reparto Commerciale di Billy World queste cautele interessano poco, perché a loro interessa solamente stabilire quale giorno sia da dedicare alla inaugurazione del parco con visita guidata alla nursery. Vogliono dei numeri netti, per fissare una data, senza troppi discorsi teorici, stime di incertezza e altre menate da biostatistico.
Voi portare i numeri a quelli del Reparto Commerciale, e questi si scandalizzano quando fate notare che, ovviamente, ogni specie di dinosauro ha il suo periodo di incubazione, e che quindi, se quelli del Reparto Commerciale vogliono fare una mega-inaugurazione con una serie di schiuse ad effetto nella nursery, occorre fertilizzare le diverse uova in periodi diversi dell'anno, per avere le schiuse sincronizzate.
Quelli del Reparto Commerciale, presi dal panico, concludono che allora basterà mostrare una sola specie, e fissare la inaugurazione per il giorno in cui schiuderanno le uova dei raptor. Si chiama raptor, giusto?
Deinonychus dite voi.
“Sì, è la stessa cosa”, replicano quelli del Commerciale: “Quando schiudono i raptor?”.
“Due mesi e due settimane”.
“Cavoli... troppo presto. Non abbiamo ancora fatto partire l'asta per i diritti TV. Avete qualcosa che impiega più tempo?”
“I sauropodi: 4 mesi e mezzo”.
“Hmm... no, sarebbe bassa stagione. Ma quanto avete detto che ci mette il T. rex?”.
“Quattro mesi”.
“Sarebbe persino peggio dei sauropodi. No, ascolta, a noi serve qualcosa che schiuda tra tre mesi esatti. Ce l'avete?”.
“Tre mesi? Sì, abbiamo la specie apposta per voi. Tre mesi ed escono dalle uova precisi che spaccano il minuto!”
“Sarebbero?”
Massospondylus carinatus”.
“Masso... spo... cosa sarebbero? Avete una foto?”
“Ecco, questo è l'adulto. Ma alla nascita è fatto così”.
“Ma... è bruttissimo”.
“...?”
“No, sentite, facciamo così. Lasciamo perdere i dinosauri veri. Chiamiamo qualcuno di Hollywood e facciamo degli animatronic che escono da uova finte. Per l'inaugurazione andrà benissimo. Li facciamo ferocissimi, che saltano fuori dalle uova e cercano di azzannare gli ospiti. Sarà una figata assoluta! Qui non si bada a spese!”.

Bibliografia:
Lee S.A. 2019. Trends in embryonic and ontogenetic growth metabolisms in nonavian dinosaurs and extant birds, mammals, and crocodylians with implications for dinosaur egg incubation. Physical Review E 99:052405.





17 maggio 2019

Non tutti gli impatti vengono per nuocere: l'eccezionale caso del Biota Winneshiek

Eccezionale preservazione nei fossili dal Biota Winneshiek (da Briggs et al. 2018)

In un momento imprecisato del remoto passato, un corpo celeste orbitante intorno al Sole fu ridotto in frammenti, probabilmente come conseguenza dell'impatto con un altro corpo vagante nello spazio.
Milioni di anni dopo, intorno a 470 milioni di anni fa, alcuni dei frammenti di quella deflagrazione entrarono in più occasioni in rotta di collisione con la Terra, generando una serie di crateri da impatto. Uno di questi crateri, chiamato Decorah, del diametro di circa 5 km, è localizzato nello stato dell'Iowa. Questo cratere testimonia un raro caso in cui astronomia, biologia e paleontologia convergono in un fenomeno tanto inatteso quanto affascinante.
L'impatto che provocò il cratere Decorah avvenne su un fondale marino relativamente basso, non lontano dalla costa. Alcuni milioni di anni dopo l'impatto, circa 465 milioni di anni fa, questo cratere era stato popolato da una ricca comunità di organismi acquatici. Le peculiari condizioni sul fondo di questo cratere sommerso si riveleranno ottimali per la fossilizzazione e preservazione di questi fossili, che oggi sono noti come il Biota Winneshiek, uno dei Lagerstatte Ordoviciani meglio conservati al mondo. 
Le condizioni inusuali prodotte dall'impatto sul fondale marino hanno probabilmente favorito, alcuni milioni di anni dopo l'impatto, quei processi di deposizione di materiali molti fini, in acque molto calme e poco ossigenate, che costituiscono il mix perfetto per permettere la conservazione delle parti molli anche in delicati organismi marini.
Condizioni analoghe a quelle del cratere Decorah sono presenti anche in un altro cratere ordoviciano, presumibilmente il prodotto di un altro impatto generato dalla medesima famiglia di frammenti cosmici, e condizioni di fossilizzazione analoghe sono documentate anche in altri bacini formatisi sopra crateri da impatto di età più recente. Sembra quindi che, paradossalmente, gli impatti con corpi celesti, spesso citati in merito alle estinzioni di massa in paleontologia, possano anche essere la causa di condizioni ottimali per la preservazione di quelle faune che, milioni di anni dopo l'impatto, hanno ripopolato le zone devastate da questi eventi catastrofici.

Bibliografia:
Briggs DEG, et al. 2018. The Winneshiek biota: exceptionally well-preserved fossils in a Middle Ordovician impact crater. Journal of the Geological Society 175(6):jgs2018-101 DOI: 10.1144/jgs2018-101.

14 maggio 2019

Alcmonavis, un nuovo uccello da Solnhofen

Olotipo di Alcmonavis poeschli (da Rauhut et al. 2019)

Prima della scoperta delle ricche faune a theropodi piumati di età giurassica rinvenute negli ultimi 15 anni in Cina, l'unica regione ad aver fornito dei theropodi piumati giurassici era la Baviera, per la precisione una serie di cave a calcari litografici di età Kimmeridgiana-Titoniana, la più nota delle quali è nei pressi di Solnhofen. Tutti gli esemplari di Archaeopteryx provengono da quelle cave. Anche a causa del grande significato storico di Archaeopteryx, o perché si assumeva che nel Giurassico esistessero solo proto-uccelli "come Archaeopteryx", raramente i paleontologi si sono domandati se assieme all'iconico "Urvogel" fossero esistiti altri possibili uccelli di tipo differente rispetto ad Archaeopteryx. Non mi riferisco a possibili specie distinte rispetto ad Archaeopteryx lithographica, né a eventuali separazioni di questo ultimo genere in più generi distinti di archaeopterygidi, ma a veri e propri uccelli più derivati, presenti nelle cave litografiche bavaresi, ed eventualmente prossimi alle forme poi scoperte nel Cretacico Inferiore cinese.
La recente identificazione di almeno una seconda specie di Archaeopteryx, a la separazione di un esemplare prima riferito a questo genere, ed ora considerato un taxon distinto, Ostromia, hanno dimostrato che nei calcari litografici bavaresi esiste una insospettata diversità di paraviani. 
Un nuovo esemplare, pubblicato oggi, parrebbe persino andare oltre il grado "archeopterygide-anchiornithino" di tutte le forme precedenti, e potrebbe rappresentare il theropode giurassico più vicino agli uccelli moderni.
Rauhut et al. (2019) descrivono un arto anteriore semi-articolato da livelli litografici bavaresi di età tardo-giurassica. Sebbene a prima vista l'esemplare sia abbastanza simile ad Archaeopteryx, si distingue per essere del 10% più grande rispetto all'arto anteriore del più grande esemplare di quel genere, e per avere alcuni caratteri assenti nel classico "Urvogel" ma condivisi con gli aviali cretacici: la cicatrice per il muscolo pettorale sull'omero è più ampia e marcata, il tubercolo sul radio per il bicipite è ben sviluppato, ed il secondo dito della mano è molto più robusto degli altri due. Tutti questi caratteri indicano una maggiore capacità muscolare nel battito dell'ala ed una mano più adatta a portare ampie penne remiganti rispetto ad Archaeopteryx. Sulla base di queste caratteristiche, gli autiri istituiscono un nuovo taxon, Alcmonavis poeschli.
L'analisi filogenetica di Rauhut et al. (2019), basata su una versione modificata della matrice del Theropod Working Group, colloca Alcmonavis coma membro di Avialae più derivato rispetto ad Archaeopteryx ma esterno al gruppo comprendente gli jeholornithidi ed i pigostiliani.
Immesso in una analisi preliminare di Megamatrice, Alcmonavis risulta in due posizioni alternative: 1) come un aviale più derivato di Archaeopteryx lithographica, imparentato con Rahonavis e Imperobator (!) [un risultato che implicherebbe una lunghissima linea di aviali ancestrali che dal Giurassico europeo si estende fino alla fine del Cretacico del Gondwana meridionale], oppure come 2) un troodontide basale. A rendere tutto "imbarazzante" è che in Megamatrice le due specie di Archaeopteryx incluse nell'analisi non sono collocate nella medesima linea terminale, ma formano un grado parafiletico che "abbraccia" i "rahonavidi". Insomma, tutto lascia pensare che c'è ancora molto da fare per chiarire le relazioni tra i vari aviali di grado "archaeopterygide". L'instabilità di Alcmonavis non sorprende, dato che l'esemplare è noto solamente dal braccio. Per ora, assumo l'ipotesi aviale la più plausibile.
Sebbene le caratteristiche elencate dagli autori siano chiaramente distintive rispetto ad Archaeopteryx, non è chiaro se gli esemplari finora noti di questo ultimo siano adulti maturi. Ovvero, potrebbe Alcmonavis essere solamente l'adulto di Archaeopteryx? Purtroppo, come gli stessi autori notano, Archaeopteryx non è diagnosticabile da caratteri dell'ala, e quindi non è automaticamente distinguibile in modo non-ambiguo da Alcmonavis. Tuttavia, la diagnosi di questo ultimo è da considerare legittima qualora si dimostri che Archaeopteryx non acquisiva questi caratteri con la maturità. Dato che il più grande esemplare di Archaeopteryx è circa il 10% più piccolo di Alcmonavis, e non mostra questi attributi, mi pare improbabile che una differenza di dimensioni così piccola possa innescare delle modifiche nelle inserzioni muscolari e nelle proporzioni della mano come quelle che caratterizzano Alcmonavis
Quindi, fino a prova contraria, i due taxa sono da considerare distinti.


Bibliografia:
Rauhut, O.W.M., Tischlinger, H., & Foth C. 2019. A non-archaeopterygid avialan theropod from the Late Jurassic of southern Germany. eLife 2019;8:e43789 DOI: 10.7554/eLife.43789

Un'ammonite in ambra!

Il nodulo di ambra con all'interno vari organismi marini e terrestri, tra cui un guscio di ammonite (da Yu et al. 2019).
Da alcuni anni, gli eccezionali inclusi presenti in alcuni noduli provenienti da livelli della base del Cretacico Superiore della Birmania stanno elettrizzando la comunità paleontologica. Oltre a esemplari sicuramente stupefacenti, come resti di piccoli dinosauri theropodi, abbondano i resti di lucertole e altri squamati (ho potuto vederne alcuni dal vivo, e sono veramente sbalorditivi per la preservazione), ma anche insetti, ragni e innumerevoli altri invertebrati, tutti animali che vivevano sopra gli alberi o alla base dei tronchi da chi trasudava la resina che avrebbe poi costituito la loro tomba in ambra. 
Occasionalmente, tuttavia, anche organismi acquatici e marini possono essere rinvenuti in questi noduli. Ad esempio, sono documentati vari crostacei e bivalvi marini, che probabilmente furono inglobati dalla resina ancora fresca colata da un albero che cresceva sulla riva di uno specchio d'acqua, oppure trasportata in acqua assieme ad un tronco caduto. Eventi come questi sono relativamente più rari rispetto alle inclusioni di animali terrestri e arboricoli, e difatti sono più improbabili da rinvenire nei fossili. Improbabili ma non impossibili.
Yu et al. (2019) descrivono un caso ancora più eccezionale e suggestivo: una conchiglia di ammonite conservata in un nodulo di ambra birmana. L'idea di poter "vedere" un'ammonite conservata in ambra è sicuramente elettrizzante. Specialmente nel caso delle ammoniti più curiose e bizzarre, di cui si discute molto su come vivessero e nuotassero. Purtroppo, l'entusiasmo per la presenza di un'ammonite in ambra è subito smorzato dal constatare che il fossile è solamente quello della conchiglia vuota, e che non sono presenti tracce dei tessuti molli. Siccome nella medesima ambra sono presenti anche gusci vuoti di alcuni bivalvi e frammenti sparsi di conchiglie, la spiegazione più probabile per l'associazione di questi resti è che si tratti di gusci vuoti inglobati dalla resina colata sulla spiaggia, piuttosto che animali vivi inglobati in acqua. Nondimeno, la presenza nella stessa ambra di alcuni isopodi marini (crostacei simili ai porcellini di terra) fa sperare che, forse, in futuro troveremo anche qualche ammonite "in vivo" e con anche parti del corpo del mollusco, e non solo come conchiglia: qualora ciò accada, si tratterebbe di una scoperta storica per la paleontologia, dato che finora non si conosce alcuna traccia fossile delle parti molli delle ammoniti, nonostante che siano così ben rappresentate a livello di conchiglie.

Bibliografia:
Yu T. et al. 2019. An ammonite trapped in Burmese amber. PNAS: https://doi.org/10.1073/pnas.1821292116


09 maggio 2019

Suskityrannus vs Ambopteryx


Ricostruzione di Suskityrannus (in alto) e olotipo di Ambopteryx (in basso). Immagini tratte da Nesbitt et al. (2019) e Wang et al. (2019).

Settimana molto corposa sul fronte dei nuovi theropodi.
Nesbitt et al. (2019) pubblicano la descrizione di due esemplari frammentari riferibili al medesimo taxon, provenienti dalla stessa località nella Formazione Moreno Hill (inizio del Cretacico Superiore) e noti da almeno 20 anni come "il celurosauro di Zuni". I due animali sono della medesima taglia corporea e presentano caratteri diagnostici di Tyrannosauroidea, e sono riferiti al nuovo taxon Suskityrannus hazelae. I due esemplari di Suskityrannus sono stimati essere lunghi circa 3 metri, ma non è chiaro se essi siano indivudui maturi, pertanto la dimensione adulta di questo nuovo tyrannosauroide è incerta. Nondimeno, esso è molto interessante perché presenta caratteristiche tipiche dei tyrannosauridi (che compaiono circa una decina di milioni di anni dopo), tra cui il piede arctometatarsale: si tratta del secondo tyrannosauroide arctometatarsale più antico conosciuto, dopo Moros. Gli autori dello studio inseriscono Suskityrannus in tra analisi filogenetiche, dove esso si colloca variabilmente tra i tyrannosauroidi più vicini a Tyrannosauridae rispetto ai proceratosauridi ed a Eotyrannus. Purtroppo, nessuna delle analisi utilizzate ha incluso i megaraptori, e quindi non ritengo quelle analisi completamente dettagliate per comprendere l'evoluzione dei tyrannosauroidi a metà del Cretacico.
Immesso in Megamatrice, Suskityrannus risulta più prossimo a Tyrannosauridae rispetto a Moros ed a Megaraptora (che sono quindi confermati membri Tyrannosauroidea).

Il secondo theropode della settimana è un nuovo scansoriopterygide dal Giurassico Superiore della Cina: si tratta di un esemplare quasi completo ed articolato, che purtroppo ha il cranio molto poco preservato, ma comunque in connessione anatomica. L'esemplare è molto simile a Yi, e come questo presente il curioso osso "accessorio" nel polso che probabilmente fungeva da supporto per la membrana alare. Questo nuovo taxo, Ambopteryx longibrachium, si distingue da Yi per alcune proporzioni dell'osso "aberrante" e della mano, ma ha il pregio di conservare la parte posteriore del corpo, che è molto simile a quelle di Epidendrosaurus ed Epidexipteryx. Nonostante il clamore mediatico, va detto che l'esemplare in sé, per quanto molto ben preservato, non aggiunge particolari informazioni che non fossero altre sì note dai precedenti scansoriopterygidi.
Difatti, immesso in Matrice, Ambopteryx non aiuta a stabilizzare i bizzarri scansoriopterygidi rispetto agli altri maniraptori. Anche aggiungendo questo nuovo taxon, purtroppo, gli scansoriopterygidi continuano ad oscillare tra due possibili posizioni: come oviraptorosauri basali oppure come aviali basali. Temo che fino alla scoperta di qualche rappresentante primitivo di questo gruppo, dotato quindi di qualche vestigio dei caratteri del gruppo da cui sono originati, non si possa risolvere la questione su quale sia l'origine di questi bizzarri theropodi con ali membranose.

Bibliografia:
Sterling J. Nesbitt, Robert K. Denton Jr, Mark A. Loewen, Stephen L. Brusatte, Nathan D. Smith, Alan H. Turner, James I. Kirkland, Andrew T. McDonald & Douglas G. Wolfe (2019) A mid-Cretaceous tyrannosauroid and the origin of North American end-Cretaceous dinosaur assemblages. Nature Ecology & Evolution DOI: https://doi.org/10.1038/s41559-019-0888-0.
Min Wang, Jingmai K. O'Connor, Xing Xu & Zhonghe Zhou (2019) A new Jurassic scansoriopterygid and the loss of membranous wings in theropod dinosaurs. Nature 569: 256-259.