Alvarezsauridae è un clade di bizzarri coelurosauri del Cretacico. La loro distribuzione nota spazia dall’inizio del Cretacico Superiore dell’Argentina alla fine del Cretacico Superiore dell’Asia e del Nordamerica. La distribuzione dei taxa più basali è esclusivamente patagonica, mentre le forme più derivate (e tardive), i mononykini, sono esclusivamente laurasiatici. Ciò parrebbe suggerire che il gruppo, originatosi nel Gondwana, si sia poi estinto nella propria terra natia. Un recente ritrovamento smentisce questa impressione. Salgado et al. (2009) descrivono i resti di alcuni alvarezsauridi dalla Formazione Allen (Campaniano-Maastrichtiano) dell’Argentina. I resti (cervicali, sacrali, caudali, frammenti di pelvi e falangi del piede), appartenenti a più individui, mostrano una morfologia alvarezsauridae (ampi forami vertebrali cervicali, centri sacrali e caudali prossimali carenati, vertebre caudali marcatamente proceliche), ma apparentemente meno derivata di Patagonykus e Mononykinae (almeno nella morfologia sacrale). Questa scoperta è quindi molto significativa perché:
1- Dimostra la persistenza degli alvarezsauridi in Gondwana fino alla parte terminale del Cretacico (espande la distribuzione del clade alla fine del Cretacico).
2- Dimostra la persistenza di alvarezsauridi basali, non-mononykini, fino alla parte terminale del Cretacico (espande la diversità del clade alla fine del Cretacico).
Bibliografia:
Salgado L., Coria R., Arcucci A.B. & Chiappe L.M., 2009 - Restos de Alvarezsauridae (Theropoda, Coelurosauria) en la Formación Allen (Campaniano-Maastrichtiano), en Salitral Ojo de Agua, Provincia de Río Negro, Argentina. Andean Geology 36 (1): 67-80.
La recente descrizione di Xiongguanlongha aggiunto informazioni alla storia evolutiva di Tyrannosauroidea. Non solo grazie ad un esemplare decentemente completo (finalmente disponiamo di un buon esemplare della metà del Cretacico, fase ancora poco nota per questo clade), ma anche grazie alle nuove informazioni sulla distribuzione di caratteri-chiave per risolvere le relazioni tra i tyrannosauroidi. La storia di questi coelurosauri è quasi sempre focalizzata sulle forme più grandi, i tyrannosauridi del Cretacico Finale (Campaniano-Maastrichtiano), mentre poca attenzione è stata dedicata al resto del clade, che risale ad almeno l’inizio del Giurassico Superiore.
Per illustrare appieno quanto sia sottostimata la maggior parte della storia di Tyrannosauroidea, ovvero, la parte “basale”, esterna a Tyrannosauridae, (Nota Bene: fate attenzione a non confondere TyrannosaurOIDEA, cioè l’intero gruppo, con TyrannosaurIDAE, il sottogruppo dei tyrannosauroidi giganti come Gorgosaurus e Tyrannosaurus), ho inserito i generi di tyrannosauroidi, così come emersi nell’analisi di Megamatrice, in una colonna stratigrafica, ed ho tracciato la loro possibile filogenesi, così come risultata dall’elaborazione della distribuzione dei caratteri.
I nomi dei taxa sono stati omessi volontariamente, per focalizzare la vostra attenzione sulla totalità dell’albero, e non sui singoli generi inclusi.
Osservate che:
1- Tyrannosauridae (linee rosa, in alto a destra) è un ramoscello terminale e minoritario di una storia evolutiva ben più ampia e rigogliosa.
2- Esiste una buona correlazione tra la posizione filogenetica e l’età stratigrafica (ricordo a chi non è pratico di analisi filogenetiche, che l’analisi valuta le parentele solo in base alla morfologia, e non comprende alcun dato cronologico: ciò per evitare di imporre alla filogenesi un ordine evolutivo “forzato” per accordarsi con la posizione cronologica): ad esempio, nessuno dei taxa Giurassici è risultato in linee derivate (posizionate convenzionalmente verso la parte destra del grafico), e nessuna forma del Cretacico Superiore è risultata in posizione basale (posizionate convenzionalmente verso la parte sinistra del grafico). La discreta concordanza di stratigrafia e filogenesi permette, quindi, la possibilità di tracciare, seppure in forma molto generale, una "storia plausibile" dei tyrannosauroidi.
In base a questo diagramma, si deducono alcuni “eventi” della storia di Tyrannosauroidea:
1- A differenza di quanto si possa pensare, i tyrannosauroidi del Giurassico Superiore erano ben differenziati e relativamente abbondanti. Sembra che al tempo della notissima fauna della Morrison Formation esistessero almeno 8 linee di tyrannosauroidi. Ovviamente, non aspettatevi un tyrannosauride gigante con due dita della mano e cranio espanso! Questi tyrannosauroidi giurassici avevano la morfologia di Guanlong, Coelurus e Tanycolagreus, forme gracili di taglia medio-piccola, con arti anteriori lunghi e tridattili, e probabilmente crani allungati, bassi e crestati.
2- Sembra che buona parte di queste linee non perduri nel Cretacico. Se si escludono due linee molto basali che potrebbero risultare in futuro non-tyrannosauroidi, sembra che poche linee di tyrannosauroide persistano nel Cretacico Inferiore, e che successivamente, solo una dia origine alla “seconda generazione”, quella di Dilong, Eotyrannus ed altre forme più frammentarie. Per essere onesto, sottolineo che forse questo dato è solo apparente, dovuto alla scarsa documentazione dell’inizio del Cretacico.
Le differenze di taglia e morfologia tra i tyrannosauroidi inglesi del Barremiano dimostra comunque una diversità, e quindi un successo, per questo clade. Esattamente come nella prima fase, i tyrannosauroidi sono ancora forme di taglia medio-piccola (non più di 6 metri), che coesistono con allosaurodi e spinosauroidi di taglia maggiore.
3- Una terza fase di radiazione adattativa si verifica infine nel Cretacico Superiore. Oltre ai ben noti tyrannosauridi giganti, abbiamo altre forme più frammentarie, come Bagaraatan, Dryptosaurus, nonché un paio di taxa molto bizzarri dei quali, per ora, non voglio parlare. Questa nuova fase della storia di Tyrannosauroidea vede l’espansione del range di taglia (con l’evoluzione dei tyrannosauridi giganti), nonché numerose modificazioni a livello cranico. Questa fase di successo è probabilmente legata all’evoluzione dell’arctometatarso e all’estinzione degli allosauroidi e degli spinosauroidi in Laurasia.
In attesa di nuovi dati, questa è probabilmente la storia più plausibile che possiamo narrare per i tyrannosauroidi.
Dopo il post su Xiongguanlong, ecco il secondo post dedicato alle più recenti novità theropodologiche.
Il 2008-9 sembra essere il biennio degli ornithomimosauri giganti. Questo è il terzo caso, dopo il rumor di nuove scoperte mongoliche ed i resti di un grande ornithomimosauro canadese descritto recentemente (Longrich, 2008).
Beishanlong (Makovichy et al., 2009) è basato su tre esemplari parzialmente conservati, provenienti da due differenti livelli del Gruppo Xinminpu (lo stesso di Xiongguanlong, Suzhousaurus, oltre che abbondanti resti di hadrosauroidi e neoceratopsi). Attualmente, di Beishanlong conosciamo alcune vertebre (sopratutto caudali, la regione più diagnostica di questo taxon) e resti appendicolari (parte del braccio e della gamba). L’anatomia generale è quella di un Ornithomimosauria basale (ovvero, esterno ad Ornithomimidae, il gruppo comprendente gli ornithomimosauri più prossimi a Ornithomimus rispetto a Garudimimu). In particolare, escludiamo che Beishanlong sia una ornithomimidae in quanto non presenta prezygapofisi caudali spatoliformi, un completo arctometatarso, né unguali del piede appiattiti ventralmente. Un carattere peculiare di questo theropode, nelle vertebre caudali, è condiviso con un esemplare giovanile descritto recentemente ma non pubblicato da Kobayashi, e da lui attribuito a Harpymimus. Mi impegno nel prossimo futuro di includere questo esemplare in Megamatrice (oltre a Beishanlong) per verificare se siano imparentati.
L’aspetto più appariscente di Beishanlong è la taglia. La massa dell’olotipo in vita è stimata ben oltre la mezza tonnellata, ed è significativo che esso non sia un adulto maturo (deducibile dalla non ossificazione completa degli archi neurali ai corrispettivi centri, e dall’istologia delle sezioni ossee che mostrano un non-arrestamento della crescita al momento della morte). Se escludiamo provvisoriamente Deinocheirus, la cui attribuizione a Ornithomimosauria dipende più dalla vostra scelta di dove porre il limite di inclusività del nome del gruppo più che a reali obiezioni anatomiche, Beishanlong è probabilmente il più grande ornithomimosauro noto, superando probabilmente gli 8 metri di lunghezza stimati per l’adulto di Gallimimus (IGM 100/11). Le proporzioni generali delle ossa appendicolari suggeriscono che Beishanlong fosse una forma più robusta rispetto a Gallimimus. I tre esemplari noti non provengono dallo stesso sito. Un dettaglio è significativo: a differenza dell’olotipo, e di buona parte degli ornithomimosauri rinvenuti finora in Asia, provenienti da paleo-ambienti di tipo lacustrino o alluvionale (spesso associati con hadrosauroidi, tyrannosauroidi e therizinosauri), un altro esemplare di Beishanlong proviene da paleoambienti più aridi (associato a maniraptori e neoceratopsi). Tuttavia, prima di partire con speculazioni più dettagliate su eventuali differenze ecologiche o adattative, preferisco attendere futuri ritrovamenti.
Bibliografia:
Longrich N., 2008 - A new, large ornithomimid from the Cretaceous Dinosaur Park Formation of Alberta, Canada: implications for the study of dissociated dinosaur remains. Palaeontology 51, 983–997. (doi:10.1111/j.1475-4983.2008.00791.x)
Makovicky P. J., Li D.-Q., Gao K.-Q., Lewin M., Erickson, G. M. & Norell M. A., 2009 - A giant ornithomimosaur from the Early Cretaceous of China. Proc. R. Soc. B. (doi: 10.1098/rspb.2009.0236)
Accantonato il post polemico, ed inebriato dalla ricchezza di questa settimana dinosaurologica (oltre ai taxa citati ieri, aggiungo un nuovo alvarezsauro patagonico per ora senza nome), inizio questa serie dedicata alle novità theropodologiche con l’esemplare più inaspettato, il bellissimo* tyrannosauroide longirostrino Xiongguanlongbaimoensis (Li et al., 2009).
Ringrazio subito, per avermi aiutato a reperire le informazioni per questa serie di post: Peter Makovichy, Thomas Holtz, Dario Soldan e Marco Auditore.
Xiongguanlong proviene dal Gruppo Xinminpu dell’Aptiano-Albiano della Cina, dove è simpatrico con il therizinosauro Suzhousaurus ed il nuovo ornithomimosauro Beishanlong, entrambi di taglia superiore a quella del nuovo tyrannosauroide, per il quale è stimata una massa adulta di 270-300kg. L’unico esemplare noto è costituito da un cranio articolato, una serie vertebrale presacrale completa, un ileo frammentario ed un femore. Xiongguanlong si distingue dagli altri tyrannosauroidi noti per il marcato allungamento della regione antorbitale del cranio, che risulta basso ed allungato. Di conseguenza, il palato secondario è molto lungo, con coane arretrate. Inoltre, si distingue da altri tyrannosauroidi per possedere un nasale privo di creste, rugosità o ornamentazioni. Questo nuovo tyrannosauroide presenta un mix unico di caratteri plesiomorfici (tra cui, denti laterali compressi labiolingualmente, assenza di recessi nasali e quadratojugali, assenza di cresta lacrimale, vertebre cervicali allungate, pleuroceli singoli e limitati alla colonna cervicale) e derivati (tra cui, cresta linguale nei denti premascellari, spina neurale dell’asse con spine accessorie, ampio basisfenoide).
Sebbene non abbia ancora incluso Xiongguanlong in Megamatrice, ritengo che occuperà una posizione analoga a quella emersa dall’analisi di Li et al. (2009), ovvero più derivata di Dilong e Eotyrannus ma esterna a Tyrannosauridae (inteso come il nodo “Tyrannosaurus + Gorgosaurus”). Dato che la mia analisi colloca altri theropodi bizzarri ed enigmatici in quella area dell’albero tyrannosauroide, sono molto curioso di vedere come l’ingresso di questo nuovo taxon modificherà le interrelazioni esistenti.
Pur collocandosi filogeneticamente e stratigraficamente tra le forme dell’inizio del Cretacico e quelle più tarde e famose, Xiongguanlong è chiaramente apomorfico in maniera originale, e suggerisce l’esistenza di linee adattative sconosciute e non direttamente legate all’evoluzione dei macropredatori del Cretacico Superiore. La dentatura (priva di espanzione labiolinguale) ed il cranio (basso ed allungato, con il nasale gracile) non mostrano le specializzazioni adatte a resistere a intense sollecitazioni meccaniche presenti nei tyrannosauridi. Pertanto, è probabile che Xiongguanlong non fosse adatto a esercitare morsi potenti, capaci di frantumare le ossa. Nondimeno, il suo cranio presenta numerose apomorfie presenti nei tyrannosauridi ritenute finora come adattamenti volti a potenziare la potenza del morso: ciò dimostra che quei caratteri non si svilupparono inizialmente come adattamento diretto al potenziamento del morso, ma che furono co-optati secondariamente, dopo essersi sviluppati, per quella funzione solo nella linea tyrannosauridae (furono quindi delle ex-aptations).
L’olotipo di Xiongguanlong è prossimo alla maturità: questo dato sembra indicare che l’evoluzione della taglia gigantesca è esclusiva dei Tyrannosauridae del Cretacico Superiore, mentre per buona parte della sua storia e delle sue linee evolutive, Tyrannosauroidea fu costituito da specie di predatori di taglia medio-piccola. Purtroppo, non disponiamo di resti del piede, quindi non possiamo sapere se a questo stadio della filogenesi fosse già presente l’arctometatarso (assente negli altri tyrannosauroidi basali).
Sebbene il cranio di Xiongguanlong possa apparire bizzarro, il suo grado di allungamento è simile a quello di altri taxa, come Guanlong e Alioramus. Tale proporzione cranica è presente anche nei giovani tyrannosauridi, ed indica che la morfologia derivata negli adulti delle forme giganti sia una modificazione della morfologia allungata, la quale persisteva nei giovani come retaggio della loro storia evolutiva.
*Ho un debole per i bipedi dal cranio affusolato, che siano theropodi piscivori, nuovi tyrannosauroidi... o ragazze con eleganti nasi affilati... ;-)
Bibliografia:
Li D., Norell M.A., Gao K.Q., Smith N.D. & Makovichy P.J., 2009 - A Longirostrine Tyrannosauroid from the Early Cretaceous of China. Proc. R. Soc. B published online 22 April 2009. doi: 10.1098/rspb.2009.0249
Questo post è polemico... forse, sarebbe più consono per Ultrazionale. Eccomi, per includermi alla serie di link che aggiungerete nelle vostre ennesime futili-inutili discussioni su "T-Rex" (che non si scrive così, ma finite sempre per scriverlo così, invece che "T. rex"). In fondo, è di questo che volete parlare. La velocità quasi fotonica con la quale le informazioni sono diffuse in rete fa sì che la divulgazione di nuove informazioni sia una vera e propria gara contro il tempo. Più tardi si parte, peggio si diffonderà la propria voce. Se davvero siete interessati a esprimervi su una nuova scoperta, dovete produrre il vostro articolo/post nel più breve tempo possibile, prima che la marea inesorabile delle voci vi sommerga, relegandovi all'anonimato del già noto. Inevitabilmente, infatti, una nuova scoperta si diffonde e si amplifica, e ciò è tanto più rapido quanto più ampia è la popolazione di interessati. Purtroppo, ciò ha come conseguenza il trionfo del banale, del grossolano, dell'impreciso e del falso. Dato che è molto più facile e rapido fare "copia e incolla" di una notizia, spesso di seconda mano, senza nemmeno aver letto la fonte originale, ne deriva che le poche versioni approfondite e dettagliate rischiano l'oblio e l'indifferenza ancor prima di essere nate. Ciò è ovvio, dato che per produrre un post approfondito su un nuovo studio è obbligatorio, necessario e doveroso basarsi sulla fonte diretta, cercandola e studiandola nel dettaglio. E se questa fonte diretta è un articolo scientifico, tecnico, corredato da dati che occorre analizzare e elaborare, capite che il tempo necessario per produrre un buon articolo si dilaterà, a tutto vantaggio delle versioni mediocri e grossolane. Non siete convinti? Ho fatto una veloce ricerca in rete: solo nei siti italiani (anche di testate giornalistiche nazionali) ho riletto la stessa identica pagina, ricopiata meccanicamente, copiata e incollata senza nemmeno una modifica che distinguesse una versione da un'altra concorrente. Questo è il giornalismo scientifico? L'omologazione delle copie, spesso mediocri e imprecise? Se leggete in rete le varie versioni della recentissima pubblicazione di Xiongguanlong, vedrete che è riassumibile nella seguente favoletta, immutata in decine di pagine gemelle: "L'antenato del T-rex è stato scoperto in Cina. Questo dinosauro è l'anello di congiunzione tra il Tirannosauro (sic) e i suoi antenati più piccoli. In alcune caratteristiche era però simile ai grandi tirannosauri".
Perché è una favola? Semplicemente perché un animale non può essere descritto in funzione di qualcosa che esisterà decine di milioni di anni dopo di lui! Sopratutto perché esso non è l'anello di congiunzione tra animali vissuti quindici milioni di anni prima e altri vissuti quaranta milioni di anni dopo! Xiongguanlong NON è l'antenato di alcuna specie già descritta. La sua palese natura apomorfica lo esclude esplicitamente, la sua collocazione temporale lo rende impossibile: i vuoti temporali, in parte colmati, restano pur sempre incolmabili. Ogni nuovo theropode è un tassello di un mosaico gigantesco ed ancora quasi vuoto, non un anello di una corta catenina in fase di completamento. Le complesse ramificazioni del clade chiamato Tyrannosauroidea NON FORMANO una sequenza lineare, una linea semplicistica che parte da un piccolo celurosauro del Giurassico e termina con una serie di tappe univoche nel "mitologico" Tyrannosauro della Fine del Mesozoico. La presenza di evidenti somiglianze dettate dalla comune parentela non implica che un nuovo animale debba essere una tappa verso qualcosa che non esisteva (ancora) ai suoi tempi. Forse che l'esistenza di Xiongguanlong nella Cina di 110 milioni di anni fa è stata plasmata e condizionata da ciò che sarebbe accaduto in un remotissimo futuro in Nordamerica? Se pensate che sia così, allora dovete iniziare a valutare la vostra esistenza in funzione di qualche babbuino che nascerà tra 30 milioni di anni. Oppure nel vostro caso non vale? Voi siete speciali? Siete come il T-Rex?
Xiongguanlong è un nuovo tyrannosauroide, molto interessante per le sue apomorfie, e, come tutti i theropodi, per ciò che può dirci del Mesozoico. Ovviamente, tutto questo è irrilevante per l'ignorante schiera dei copia-incollatori della rete, i quali non leggono nemmeno ciò che selezionano col tasto sinistro del mouse. A loro, tutta la natura di Xiongguanlong è totalmente indifferente. A loro interessa solo il loro caro, mitico ed inutile T-Rex, al quale immolare tutto ciò che sia lontanamente associabile.
Pertanto, se siete in attesa di sapere da me qualcosa di concreto su questo nuovo, interessantissimo tyrannosauroide, sulla sua morfologia, sulle informazioni che aggiunge all'evoluzione di Tyrannosauroidea (l'intero albero, e non solo il ramoscello più famoso e blasonato vissuto nella Formazione di Hell Creek), datemi tempo, per raccogliere ed elaborare i dati. Oppure clikkate altrove, o cercatevi i dati originali, direttamente!
Oggi mi andava di essere polemico...
PS: PER LEGGERE IL VERO POST SU XIONGGUANLONG, CLIKKATE SUL TITOLO DEL POST!
Mi attende una settimana theropodologicamente intensa! Tre recentissimi studi mi terranno impegnato...
Le ridescrizione dettagliata di Staurikosaurus. Un nuovo Ornithomimosauria di grande taglia. Un nuovo Tyrannosauroide basale.
(e non dimentichiamo, nei non-theropodi, la ridescrizione di Jeholosaurus, il nuovo ceratopsomorfo ed il nuovo hadrosauroide) A breve vi informerò a dovere!
Se la bellezza è nella totalità di un sistema, la conoscenza sta nei dettagli. Conoscere e ricostruire l’ecologia di un insieme di ossa fossili, com’è qualunque theropode mesozoico, passa dall’analisi dettagliata delle sue caratteristiche. Non crediate che basti guardare la forma di un muso o la proporzione di una mascella per aver individuato la sua funzione. Troppe volte leggo di spinosauri assimilati a coccodrilli, abelisauri a iene, o dromeosauri a lupi... ed ogni volta mi chiedo perché si inventino proprio queste analogie, quando altre, ugualmente valide, non vengono nemmeno citate (spinosauri e aironi, abelisauri e serpenti, dromaeosauri e casuari, per esempio, sono ugualmente valide e significative... se proprio non potete fare a meno di cercare analogie moderne). Come ho ripetuto spesso in questo blog, la semplice somiglianza tra alcuni tratti generali esistente tra un theropode ed un vertebrato attuale non è una prova automatica di analogia funzionale.
Oggi parlerò di un tratto spesso citato come sinapomorfia dei Theropodi all’interno dei dinosauri, e delle sue varianti più estreme: il giunto intramandibolare. L’immagine aiuterà a districarvi tra i nomi di ossa mandibolari. Abbiamo tre mandibole di theropodi, in vista mediale (ovvero, interna): Monolophosaurus, Majungasaurus e Tarbosaurus. In tutti e tre i casi, la mandibola è divisibile in due distretti: uno anteriore (rosso) comprendente il dentale, il sopradentale e lo spleniale; ed uno posteriore (giallo) comprendente le restanti ossa, in particolare, il coronoide, il surangolare, l’angolare ed il prearticolare. Ricordatevi bene questi nomi, ed in particolare, il sopradentale (nella zona rossa) ed il coronoide (nella zona gialla).
Nei neotheropodi esiste una complessa serie di giunture mobili tra la zona rossa e la gialla, detta “giunto intramandibolare”. Questo giunto esiste anche negli herrerasauri (Sereno & Novas, 1993), ma dato che ha una forma differente da quello neotheropode, non è chiaro se sia omologo oppure acquisito per convergenza. La funzione di questo giunto è di aumentare la mobilità relativa tra la zona rossa e la gialla. In particolare, il giunto permette una parziale mobilità mediolaterale della zona rossa, che pertanto è in grado di dilatarsi rispetto alla gialla. Dato che nella maggioranza dei theropodi la sinfisi rostrale della mandibola non è fusa, ma è basata su un legamento, ne risulta una relativa capacità di dilatare la mandibola durante il morso. Questa caratteristica permette quindi di variare il volume della mandibola per ingerire prede relativamente voluminose. Un giunto analogo è presente negli squamati attuali, come lucertole e sopratutto nei serpenti, dove si è evoluto al massimo per permettere l’ingestione delle prede.
Non tutti i theropodi hanno il giunto mandibolare sviluppato nello stesso modo. La condizione in Monolophosaurus (Currie & Zhao, 1993) si può considerare “classica”, presente in molti altri taxa, come Dilophosaurus, i dromaeosauri e gli allosauroidi.
La condizione in Majungasaurus (ed in tutti gli abelisauroidi noti) rappresenta l’evoluzione estrema della mobilità del giunto intramandibolare. Analogamente come nei serpenti, le superfici articolari tra la zona rossa e la gialla sono ridotte al minimo, e la finestra mandibolare esterna (non visibile in queste immagini) è molto ampia. Il risultato è un morso facilmente dilatabile, ma relativamente debole come potenza. Pertanto, è plausibile che la mandibola degli abelisauri fosse molto efficace per afferrare ed adattarsi a prede intere relativamente voluminose, ma che nel complesso fosse piuttosto debole, e incapace di generare e sopportare forze elevate. La riduzione della lunghezza del cranio, unita allo sviluppo della muscolatura temporale, indica quindi un morso rapido, ma non particolarmente potente. Come ho discusso in altri post, è la muscolatura del collo, molto sviluppata per generare spinte laterali, ad essere deputata a scuotere vigorosamente le prede. Mancando degli adattamenti brontofagici allosauroidi a livello della base del cranio, ritengo però che gli abelisauridi non fossero specializzati a strappare ampie porzioni di tessuto da prede di grande mole. Tuttavia, ciò non è assolutamente un deficit predatorio: è probabile che qualsiasi animale che rientrasse nell’apertura boccale di questi theropodi (e la lista è lunghissima: dai giovani sauropodi ai coccodrilli, ornithischi e theropodi di media taglia) fosse una potenziale preda per gli abelisauridi, che afferravano agevolmente le prede grazie alla grande mobilità del corpo e le scuotevano vigorosamente prima di ingoiarle quasi intere.
All’altro estremo del continuum adattativo abbiamo i tyrannosauridi come Tarbosaurus, nei quali si ha la fusione del coronoide e del sopradentale (colorati in arancio, parzialmente coperti da prearticolare e spleniale; Horum & Currie, 2000): ciò immobilizzava il giunto intramandibolare, il quale era ulteriormente irrigidito da complesse articolazioni tra le zone rossa e gialla. Non a caso, la finestra mandibolare esterna dei tyrannosauridi è molto ridotta, il cranio presenta ampie inserzioni per i muscoli mandibolari ed i denti sono “incrassati”, ovvero molto ampi in sezione trasversale: tutti questi adattamenti, uniti all’immobilità del giunto intramandibolare, permettevano un morso molto potente, capace di produrre il tipo di lesioni ossee rinvenute in molti fossili (Erickson & Olson, 1996; Erickson et al., 1996) e di frantumare le ossa (come ricavato dall’analisi di coproliti; Chin et al., 1998). In questi theropodi, che come gli abelisauridi non utilizzavano l’arto anteriore nella predazione, il morso, capace di sopportare sia le enormi pressioni mandibolari sia l’energia cinetica dell’impatto con la preda, aveva la funzione di praticare ferite profonde, in grado di fratturare le ossa e (aggiungo io) gli osteodermi.
Bibliografia:
Chin, K., T. T. Tokaryk, G. M. Erickson & L. C. Calk. 1998. A kingsized theropod coprolite. Nature 393:680–682.
Currie, P. J. & X. J. Zhao. 1993. A new large theropod (Dinosauria, Theropoda) from the Jurassic of Xinjiang, People’s Republic of China. Canadian Journal of Earth Sciences 30:2037–2081.
Erickson, G. M., & K. H. Olson. 1996. Bite marks attributable to Tyrannosaurus rex: Preliminary description and implications. Journal of Vertebrate Paleontology 16:175–178.
Erickson, G. M., S. D. Van Kirk, J. Su, M. E. Levenston, W. E. Caler & D. R. Carter. 1996. Bite force estimation for Tyrannosaurus rex from tooth-marked bones. Nature 382:706–708.
Horum J.H. & Currie P.J., 2000. The Crushing Bite of Tyrannosaurids. Journal of Vertebrate Paleontology 20:619-621.
Sereno, P. C. & F. E. Novas, 1993. The skull and neck of the basal theropod Herrerasaurus ischigualastensis. Journal of Vertebrate Paleontology 13:451–476.
Zhao X. J. & P. J. Currie. 1993. A large crested theropod from the Jurassic of Xinjiang, People’s Republic of China. Canadian Journal of Earth Sciences 30:2027–2036.
Prolungkata è un nuovo ceratosauro del Maastricthiano dell’Australia (Matthew & Li, 2019). L’unico esemplare noto comprende un frammento di mandibola, buona parte della colonna vertebrale, ed un pube. Esso si distingue dal suo parente Anodontoraptor (Talbor, 2016), con il quale condivide l’estrema riduzione della dentatura e la fossa spinolaterale bilobata dell’asse, per la presenza di due alveoli vestigiali a livello della sinfisi dentale e per la fusione delle lamine prezygoepipophyseali lungo il margine ventrale delle spine neurali cervicali. Inoltre, a differenza di Anodontoraptor, la cui lunghezza stimata dal femore è di 6-8m, il pube di Prolungkata indica che l’animale non superava i 3-3,5m.
Questo nuovo ceratosauro aggiunge dettagli sull’anatomia e l’ecologia del bizzarro clade Ozraptoroidea, comprendente Ozraptor (Smith, 2015) ed Anodontoraptor, dall’Australia, e Coeluroides e Majungacauda dall’Indo-Madagascar (Oswald & Brimanapirje, 2017). Ma di tutto questo, ne parlerò in un altro post...
Bibliografia:
Matthew J.W. & Li H.K., 2019 - A new ceratosaur from the Late Cretaceous of Australia, with remarks on the evolution of Ozraptoroids. Journal of Vertebrate Paleontology 39: 155-168.
Oswald B.O. & Brimanapirje S., 2018 - A new theropod bonebed from Madagascar, and the evolution of Gondwana abelisauroids. Alcheringa 43: 187-196.
Smith W., 2015 - A new specimen of Ozraptor.Alcheringa 39: 20-30.
Talbor A.R., 2016 - A toothless ceratosaur from the Early Cretaceous of Australia. Journal of Vertebrate Paleontology 36: 28-36.
Ieri, al Museo di Storia Naturale di Milano, è stato presentato un nuovo interessante sito iconologico triassico. I dettagli dello studio sono scaricabili da qui.
Io ho contribuito in maniera MOLTO marginale ed estemporanea durante la fase di allestimento della presentazione, aiutando Cristiano Dal Sasso, organizzatore dello studio, Simone Maganuco ed il paleoartista Davide Bonadonna, autore di questa ricostruzione in vivo del probabile autore delle orme descritte… Abbiamo avuto in particolare un simpatico quarto d’ora in un montacarichi di 3 metri x 3 metri con un archosauro di 5 metri…
Nella foto,da sinistra, il sottoscritto, Davide e la sua opera paleo-scultoria.
In passato, ho descritto le peculiarità del secondo dito del piede dei deinonychosauri. Molte delle funzioni attribuite dagli studiosi a questo dito specializzato erano basate su comparazioni con possibili analoghi. Tuttavia, finora nessuno aveva testato sperimentalmente l’effettiva funzionalità di questo dito e, sopratutto, aveva valutato se le presunte specializzazioni funzionali fossero effettivamente esclusive del secondo dito del piede dei deinonychosauri, oppure se anche altre dita, anche in altri taxa, avessero analoghe prestazioni. Recentemente, Senter (2009) ha pubblicato uno studio dettagliato che colma questa lacuna. Lo studio segue la scia di precedenti studi, sopratutto ad opera dello stesso Senter, che hanno testato le funzionalità degli arti dei theropodi sulla base della manipolazione diretta delle ossa lungo le superfici articolari. Ad esempio, ne avevo parlato a proposito dell’arto anteriore negli allosauroidi.
Senter (2009) ha utilizzato esemplari articolati di piedi di theropodi, non solo deinonychosauri, per determinare il grado massimo di estensione e flessione a livello delle articolazioni metatarso-falangeali e tra quelle interfalangeali.
Dallo studio, emerge che l’espansione della faccetta articolare distale della prima falange del secondo dito (una sinapomorfia dei paraviali e degli elmisauridi, carattere n°3 nella figura sopra) non produce una maggiore capacità di estensione del dito rispetto agli altri theropodi, e quindi deve essere interpretata in altri modi (ad esempio come processo per allungare il braccio della leva efficace a livello di quella articolazione). Inoltre, il processo prossimoventrale della seconda falange dei deinonychosauri (carattere n°4 nella figura sopra) riduce il grado di flessione a livello di quella falange e incrementa la resistenza alla dislocazione. Senter ritiene che la riduzione della flessione possa essere stata selezionata per ridurre il rischio di auto-ferire la pianta del piede nel momento di massima flessione del dito.
L’analisi ha confermato che, a differenza della maggioranza dei theropodi, l’articolazione metatarso-falangeale del secondo dito del piede dei dromaeosauridi (carattere n°1 nella figura sopra) ha una forma tale da prevenire un movimento laterale/mediale del dito nella fase di estensione/flessione, che quindi tendeva a scorrere sempre parallelamente all’asse principale del metatarso. Ciò indica una qualche funzione particolare del dito dromaeosauridae, assente nei troodontidi che pur mostrano le altre specializzazioni nel dito.
Lo studio inoltre mostra che il secondo dito dei deinonychosauri, oltre alle discusse funzioni di uncino o falcetto ampiamente dibattute in letteratura, è compatibile con una funzione di scavo simile a quella praticata da vertebrati insettivori che si nutrono aprendo colonie di insetti sociali. Se tale funzione può apparire insolita se associata a Deinonychus, non bisogna dimenticare che numerosi deinonychosauri basali erano di taglia molto ridotta (ad esempio, Mei, Rahonavis, Microraptor) e che pertanto non è improbabile che fossero anche insettivori (ciò era emerso anche dall’analisi della dentatura dei troodontidi basali). A questo proposito, è interessante aggiungere che questa funzione non pare invece compatibile con il dito di Troodon (un troodontide derivato, per il quale si suppone un regime onnivoro).
L’analisi morfofunzionale mostra che il primo dito del piede di Rahonavis non era opponibile agli altri, come ritenuto in passato, e che quindi non fosse capace di prensione come negli aviali arboricoli. Inoltre, è risultato che il primo dito del piede di Chirostenotes e dei deinonychosauri è relativamente immobile, a differenza di quanto accade negli altri theropodi.
Infine, la manipolazione delle superfici articolari, ed il confronto con la cinematica del passo negli uccelli attuali suggerisce che il secondo dito dei deinonychosauri fosse tenuto esteso durante la camminata, e non flesso, quindi come illustrato nella maggioranza delle ricostruzioni.
Ringrazio Marco Auditore per avermi inviato l'articolo, e Leonardo Ambasciano per la pazienza...
Bibliografia:
Senter P., 2009 - Pedal function in deinonychosaurs (Dinosauria: Theropoda): a comparative study. Bull.Gunma Mus.Natu.Hist.13: 1-14.
Un animale velenoso è in grado di produrre delle tossine che utilizza come mezzi di difesa o offesa. Tra i vertebrati terrestri, molti anfibi e squamati sono velenosi, così come alcuni mammiferi. Nessun arcosauro noto è invece velenoso: né i coccodrilli né gli uccelli presentano specie velenose. Alcuni uccelli della Nuova Guinea sono tossici (ma non velenosi in senso stretto), ovvero, accumulano una tossina nella pelle e nelle piume, ma tale sostanza non è probabilmente un prodotto del loro metabolismo, bensì un catabolita derivante da alcuni insetti di cui si nutrono. Pertanto, le evidenze scientifiche indicano che gli arcosauri non sono velenosi. Applicando il Phylogenetic Bracketing (l’inferenza filogenetica), è quindi probabile che ciò fosse vero anche per gli arcosauri fossili, compresi i theropodi mesozoici.
Basandosi sui dati diretti, i fossili, non è possibile determinare tutte le forme di velenosità: ad esempio, non si può affermare con assoluta certezza che non esistessero specie aventi la pelle velenosa come accade in molte rane tropicali (in questo caso è vera velenosità, non come negli uccelli della Nuova Guinea citati prima). La biochimica della pelle non fossilizza, quindi non è materia di discussione paleontologica. Gli unici casi di velenosità rinvenibili nei fossili sono quelli aventi delle strutture ossee di inoculazione del veleno, come canali lungo denti specializzati (come nei serpenti) o lungo speroni della caviglia (come nell’ornitorinco). Ancora una volta, nessun arcosauro fossile, theropodi compresi, presenta speroni o denti veleniferi, confermando ciò che era deducibile dall’inferenza filogenetica.
Dato l’indubbio vantaggio che ha l’evoluzione del veleno, quali possono essere i motivi dell’assenza di velenosità negli arcosauri (theropodi compresi)? Questa domanda è probabilmente un falso problema. Forse, un mix di vincoli storici e fisiologici non permette l’evoluzione di tossine in questi animali. Tuttavia, dato che si entra nel campo della pura speculazione, non vado oltre con questo discorso.
In conclusione, i dati non mostrano arcosauri (e theropodi) velenosi, e ciò, per un empirista come me, basta. In fondo, l’assenza di una condizione non è necessariamente un argomento che merita particolare discussione: è così e basta. Forse qualcuno cerca i motivi per cui i cavalli non sono velenosi, le scimmie non vivono sul fondo dell’oceano, gli alberi non volano o le farfalle non hanno la pelliccia?
Perché gli abelisauridi hanno crani così bizzarri? Quali processi evolutivi, adattamenti e vincoli morfologici sono alla base della loro anatomia cranica? L’approccio convenzionale tende a focalizzarsi su una sola domanda, a sua volta prodotto di un’impostazione mentale stereotipata, la quale parte dall’abusata equazione: “Theropode = Dinosauro Carnivoro”. Chi, tra gli appassionati di theropodi, non tende quasi sempre a interpretare questi animali partendo dalle solite domande: “quali erano le sue prede?” oppure “di cosa si nutriva?” o anche “come cacciava?”.
Non sto dicendo che queste domande sono inutili, sto solo suggerendo ai miei lettori di essere un po’ più aperti mentalmente, meno miopi e stereotipati nel pensiero, e di cercare di esplorare il problema seguendo strade meno battute ma nondimeno plausibili. Spesso, la soluzione di un problema si raggiunge affrontandolo in maniera nuova.
Partiamo da una scoperta avvenuta negli anni ’70 del secolo scorso. In Madagascar si rinvenne un frammento cranico di età cretacica. Per quanto frammentario, l’esemplare era chiaramente un tetto cranico, proveniente dalla regione fronto-parietale. Un aspetto interessante di questo frammento era l’ispessimento marcato delle ossa stesse, che indicava una calotta cranica molto compatta ed espansa. Tra i rettili del Cretacico, una tale caratteristica espansione delle ossa craniche è tipica di un gruppo di ornithischi laurasiatici, i Pachycephalosauria. Sulla base di queste caratteristiche, fu istituito un nuovo genere di Pachycephalosauro, il primo dal Gondwana, Majungatholus atopus.
Circa venti anni dopo, ricerche dettagliate in Madagascar portarono alla scoperta di esemplari molto ben conservati di theropodi. In particolare, furono scoperti nuovi e più completi resti di abelisauri. In particolare, un cranio completo di abelisauride dimostrò che la calotta cranica di Majungatholus non apparteneva ad un pachycephalosauro, bensì ad un abelisauride. Majungatholus era un abelisauride. Successivamente, analisi più dettagliate stabilirono che Majungatholus era in realtà il sinonimo di un altro theropode del Madagascar, fino ad allora noto solo da resti mandibolare frammentari ma nondimeno diagnostici, Majungasaurus. In conclusione, Majungatholus non è né un pachycephalosauro né un animale nuovo, bensì un sinonimo dell’abelisauridae Majungasaurus (per tutti i dettagli della storia di Majungatholus-Majungasaurus, vi rimando a Sampson & Krause, 2007)
Cosa ci insegna questa storia contorta di errate interpretazioni e ri-classificazioni tassonomiche? Io sono rimasto colpito dalle analogie fronto-parietali tra abelisauridi e pachycephalosauridi: mi rendo conto che è facile cadere in errore cercando di classificare un resto frammentario, nondimeno, l’errore interpretativo, in quanto motivato e giustificato, segnala l’esistenza di somiglianze e convergenze, che hanno agito come trappole per i ricercatori.
Aldilà delle ovvie differenze tra un ornithischio marginocefalo e un theropode ceratosauro, i due gruppi condividono delle specializzazioni craniche ed appendicolari:
-La regione fronto-parietale è fusa, ispessita e compatta.
-Il cranio presenta ornamentazioni ossee ed ispessimenti attorno all’orbita e nella zona frontale.
-L’arto anteriore è molto ridotto, probabilmente a funzionalità vestigiale.
La spiegazione più plausibile che riesco a dare delle somiglianze tra i due gruppi non può risiedere in adattamenti alimentari comuni, dato che è improbabile che i pachycephalosauri fossero predatori come gli abelisauri (non escludo che potessero essere onnivori, ma comunque, è improbabile che le somiglianze con gli abelisauri siano l’effetto di pressioni alimentari simili). Se escludiamo l’adattamento alimentare e non vogliamo cercare ipotesi bizzarre e difficilmente testabili di adattamenti ambientali ed ecologici, la spiegazioni più elegante e robusta di questi caratteri è la selezione sessuale. La competizione per le femmine e la probabile scelta di queste ultime hanno plasmato i corpi di questi animali, producendo bizzarre elaborazioni craniche, ispessimenti ossei e la riduzione dell’arto anteriore. Questo ultimo carattere può essere legato all’evoluzione di una marcata territorialità e bellicosità in animali bipedi: se ammettiamo che le lotte tra maschi fossero basate su colpi e scontri della testa e su morsi (come accade in molti animali attuali come ippopotami, elefanti marini), è chiaro che questi colpi si concentrassero nella zona anteriore del corpo, quella maggiormente esposta all’avversario. Per un animale già perfettamente bipede, ridurre l’arto anteriore comportava vantaggi, come una minore esposizione all’avversario di parti corporee danneggiabili, ed inoltre permetteva di sviluppare una testa ed un collo più massicci a parità di massa del corpo, senza modificare il baricentro corporeo.
Attualmente, non disponiamo di numerose popolazioni fossili per alcuna specie di pachycephalosauro o abelisauride per verificare se e quanto fosse presente il dimorfismo sessuale, tuttavia, le prove indiziarie sembrano portarci in quella direzione. Per una discussione dell’ipotesi della selezione sessuale nei pachycephalosauri rimando a Carpenter (1997).
Ovviamente, queste modifiche corporee, guidate dalla selezione sessuale, si intrecciarono con gli adattamenti predatori degli abelisauri, plasmando un compromesso tra le necessità della predazione e le potenti pressioni della selezione riproduttiva.
Sampson S. D. & Krause D.V. (eds.), 2007 - Majungasaurus crenatissimus (Theropoda: Abelisauridae) from the Late Cretaceous of Madagascar. Society of Vertebrate Paleontology Memoir 8: 1-184; supplement to Journal of Vertebrate Paleontology 27(2).
Esistono due approcci filosofici con i quali interpretare gli esseri viventi. Il primo, detto essenzialista, e fondante il creazionismo, interpreta gli organismi come strutture integrate e coerenti, unità di irriducibile complessità, ognuna originatasi da un distinto evento singolare. L’approccio essenzialista non riconosce una storia negli organismi, e riconduce le somiglianze tra le diverse forme viventi ad un fenomeno analogo all’affinità che lega gli elementi chimici lungo la tavola periodica. L’altro approccio, quello evoluzionista, interpreta gli organismi come oggetti determinati storicamente da una serie di eventi genealogici. Per l’evoluzionista, un organismo è la storia di successive aggiunte e modificazioni di parti integrate. Ognuno di noi è la storia di milioni di eventi in successione lineare: l’RNA delle nostre cellule è un evento del Precambriano, la simmetria bilaterale del nostro corpo è un evento risalente ad un miliardo di anni fa, trasmesso da allora in ogni discendente, le cinque dita delle mani sono un evento di quattrocento milioni di anni fa, e così sono altri eventi del passato ogni altra nostra caratteristica, come la forma dei denti, il loro numero, la forma del naso, il colore degli occhi, l’assenza di coda, la forma del bacino, il bipedismo, la straordinaria capacità linguistica dei bambini di due anni, la vista tricromatica, il piacere del sesso, la pianta del piede, l’alluce non opponibile... la lista potrebbe continuare per ore.
Io sono un evoluzionista, ed osservo ogni organismo alla luce della teoria evolutiva. Quando guardo gli uccelli, vedo la loro storia. Quasi tutto ciò che oggi distingue un uccello da qualunque altro animale è riconducibile ad eventi risalenti al Mesozoico, quasi tutti avvenuti in un animale che chiameremmo “dinosauro”. Il corpo degli uccelli è l’ultima testimonianza rimasta della storia dei Dinosauri. Ogni uccello è un piccolo Museo dei Dinosauri: nel suo corpo è conservata la testimonianza di eventi mesozoici appartenenti ai dinosauri, evolutisi nei dinosauri in funzione della loro esistenza mesozoica. Il bipedismo degli uccelli e le piume filamentose dei loro pulcini sono un’invenzione del Triassico Medio-Inferiore, alla base dei dinosauromorfi; il loro piede tridattilo e le ossa cave sono quelli dei primi Neotheropodi; i loro polmoni ed i sacchi aerei sono quelli dei Saurischi; il loro cervello espanso è quello dei Maniraptoriformi; le lunghe penne delle ali e della coda sono quelle dei Maniraptora derivati, così come lo strato multiplo del guscio delle loro uova, l’attitudine alla cova, la ridotta muscolatura della coda; le ossa del polso ed il numero delle dita della mano sono invenzioni dei tetanuri giurassici; la mobilità del loro collo e la leggerezza dei loro crani sono la somma delle novità a livello del collo nei primi dinosauri e delle successive novità nei primi coelurosauri. La lista è lunghissima. Il numero di caratteristiche degli uccelli che in realtà essi hanno ricevuto in retaggio direttamente dai loro antenati del Mesozoico supera in numero ed importanza quello delle loro esclusive novità evolutesi nel Cenozoico. Quasi tutto ciò che noi oggi identifichiamo come caratteristica tipica degli uccelli è in realtà una caratteristica dei dinosauri: la lunga storia dei dinosauri pervade il corpo degli uccelli, dando senso alle loro peculiarità, giustificando l’apparente bizzarria della loro anatomia. Negare di vedere gli uccelli in questa ottica, di riconoscere in ognuno di loro l’eredità dei dinosauri mesozoici, equivale all’ottusità di chi, ancora oggi, nonostante la gigantesca mole di evidenze, continua a negare lo status animale dell’essere umano, la natura zoologica dei nostri pregi e difetti, il legame genealogico incancellabile che ci lega agli altri primati ed a tutti i mammiferi.
Ho appena fatto una veloce escursione nella rete, cercando immagini di dinosauri piumati. La sensazione prevalente è che molti paleoartisti stentino ancora a SENTIRE (to feel) il concetto di dinosauro piumato, e, di conseguenza, non riescano a infonderlo pienamente nelle loro opere. La maggioranza delle opere che ho trovato mi esprime più la sensazione di vedere dinosauri RICOPERTI DI PIUME e non di dinosauri PIUMATI. A parte alcune eccezioni, come le opere di J. Conway e P. Schouten, molti mi sembrano ancora i "vecchi" dinosauri squamati sui quali siano state incollate frettolosamente e maldestramente delle piume. L'uomo, da brava scimmia quale è, fonda molto del suo universo concettuale sulle immagini, ed ha una straordinaria capacità di distinguere un oggetto "naturale" dal un suo surrogato. I dinosauri "ricoperti di penne" sono dei surrogati di animali "naturali", non appaiono realistici, sembrano forzatamente arruffati, scarmigliati all'eccesso, oltre che posticci: è evidente l'incertezza dell'autore, disorientato dal conflitto di categorie obsolete ("dinosauro = rettile = squame" ; "piume = uccello = non rettile = non dinosauro") ancora persistente nella sua mente. Dato che molti paleo-appassionati basano le loro conoscenze di paleontologia su opere riccamente illustrate, è plausibile che sviluppino emozioni pro- o contro determinati concetti anche in base alla cornice iconografica ed illustrativa che li accompagna. Pertanto, se un dato oggettivo, come le penne nei dromaeosauridi, è illustrato con un ibrido irreale "pollo-raptor di Jurassic Park", un dinosauro "ricoperto di piume" invece che con un dinosauro "piumato", non mi stupisco se qualcuno storce il naso e sviluppa emozioni negative verso tale dato, e si dimostra ostinatamente ostile alle evidenze. Tuttavia, sarebbe buona cosa basare la propria opinione sui dati scientifici, invece che sulla plausibilità o meno delle loro rappresentazioni artistiche.
In attesa che un sempre maggior numero di paleo-artisti inizi a SENTIRE veramente (e quindi ad esprimere veramente) il dato delle piume nei dinosauri, consiglio a tutti di leggere più articoli scientifici e a guardare meno le tavole con i dinosauri "ricoperti di piume".
La Rete Mondiale è la nuova madre delle Muse, la divina ispiratrice delle moderne mitologie. Questa serie di post parlerà di dinosauri mediatici, esseri mitologici vagamente plasmati sulla letteratura scientifica, e delle loro caratteristiche. Non immaginate quante “verità” note tra gli appassionati, accettate come “fatti”, siano in realtà dei miti privi di robuste evidenze oggettive, spesso frutto di congetture, stime o estrapolazioni marginali presenti negli studi scientifici.
Mito N°1- Il Cranio di Giganotosaurus carolinii
Non esiste alcun cranio completo ed articolato di carcharodontosauride, né tanto meno di Giganotosaurus. Il fatto che in rete siano disponibili immagini di crani completi ed articolati non dimostra alcunché, se non che ci sono dei bravi artisti che ricostruiscono dei crani accattivanti per scopi divulgativi (o sarebbe meglio dire, mistificativi) a partire da resti frammentari. Ricostruire non è un peccato, lo è assumere la ricostruzione come un dato di fatto. Eppure, nonostante ciò, la rete abbonda di inutili discussioni sulle dimensioni del cranio di questo theropode, lungo 180 cm (se non oltre)... ma che non esiste!
L’immagine mostra i resti effettivi del cranio dell’olotipo di Giganotosaurus carolinii (Coria & Salgado, 1995). Come vedete, la stima effettiva della dimensione totale è molto suscettibile di variare in funzione del tipo di ricostruzione che si sceglie per completare il cranio. In particolare, per motivi non ben chiari, questo cranio è stato ricostruito con un’eccessiva inclinazione caudale dell’osso quadrato (rettangolo rosso), che allunga significativamente il cranio e produce una finestra infratemporale ipertrofica. Dato che nessun allosauroide derivato mostra una tale finestra, questa ricostruzione è alquanto discutibile. In ogni caso, l’assenza di cranio completo rende vana qualunque stima del cranio, tarata al centimetro (che è sì lungo più di un metro, ma non è ben chiaro quanto sia in totale). Il mito ha persino generato un figlio...
Successivamente, Calvo & Coria (2000) riportarono un dentale di carcharodontosauridae attribuibile a Giganotosaurus. Confrontandolo con il dentale dell’olotipo, essi ne dedussero che apparteneva ad un esemplare grande l’8% in più del primo. Essi stimarono inoltre in 180 cm la lunghezza per il cranio dell’olotipo, concludendo che il secondo cranio, completo, fosse lungo 195 cm (Calvo & Coria, 2002: 122).
Dati i modi di elaborarlo ed i dati di partenza, credo che questi valori siano, a mio avviso, alquanto irrilevanti. Anche mio fratello è più alto di me dell’8%, ma ciò non mi pare sia significativo di qualcosa (mio fratello, ovviamente, la pensa diversamente...), e di sicuro non è degno di essere menzionato in uno studio scientifico.
Mi spiace commentare negativamente gli studi di alcuni importanti ricercatori, ma penso che essi abbiano fatto un pessimo servizio alla paleontologia, creando e diffondendo un mito come quello delle dimensioni del cranio di Giganotosaurus.
Ripeto: siccome non esiste alcun cranio articolato, non ha senso estrapolare stime di dimensioni, né creare successive stime di stime, e diffondere nozioni infondate che diventano rapidamente delle false informazioni, facilmente ed impropriamente assimilabili da chi non dispone dei dati e dei metodi per valutarle in modo critico.
Mi rendo conto che alla maggioranza dei lettori interessa più un semplice numero come la dimensione in centimetri del cranio, la massa in tonnellate del corpo o altri dati numerici facilmente assimilabili da associare a Giganotosaurus, piuttosto che sorbirsi una lunga discussione sul perché le fusioni craniche abbiano certe distribuzioni, i forami dei nervi emergano lungo determinate zone, o quali siano i fattori che condizionano la pneumatizzazione del basicranio in Giganotosaurus; eppure, nella realtà, questi ultimi dati sono molto più reali ed oggettivi dei primi. Essi sono verificabili nel fossile a nostra disposizione, non sono ipotesi o stime, né estrapolazioni. Sono più complessi e difficili da capire, ma assolutamente più profondi e utili per ricostruire lba vita di questo theropode.
*Per una serie di motivi dovuti alle mistiche logiche dell'informatica, questo post è stato riproposto due volte, in quanto la prima versione era... difettosa (creava problemi a chi si connetteva tramite Internet Explorer). Purtoppo, e mi scuso di ciò, i commenti presenti nella prima versione sono andati perduti.
Bibliografia:
Calvo J.O. & Coria R., 2000 - New Specimen of Giganotosaurus carolinii (Coria & Salgado, 1995), supports it as the largest theropod ever found. Gaia 15: 117-122.
Coria L. & Salgado R., 1995 - A new giant carnivorous dinosaur from the Cretaceous of Patagonia. Nature 377: 224-226.
Inprecedenti post, ho parlato delle nuove scoperte riguardanti i dinosauri artici, scoperti in Siberia e Alaska, e sul loro significato evolutivo. Un fenomeno interessante che merita di essere approfondito è la relazione (a varie scale temporali) esistente tra queste faune polari e le ben più note faune delle medie latitudini Laurasiatiche. In uno studio appena pubblicato, Federico Fanti & Tetsuto Miyashita (2009) descrivono nuovi resti di vertebrati dalla Formazione Wapiti (Campaniano) del Canada. Questo studio è particolarmente interessante perché descrive materiale localizzato in posizione intermedia tra le formazioni polari e quelle delle medie latitudini, e ci permette quindi di stabilire correlazioni con ambo le comunità biologiche. Lo studio ha mostrato la ricchezza dell’ecosistema della Wapiti, popolato da una variegata fauna a vertebrati, sia acquatici che terrestri. L’articolo è superbamente illustrato (sia nelle tavole tecniche che in una ricostruzione paleoartistica) da Lukas Panzarin. Focalizzandoci sui dinosauri, è interessante l’abbondanza dei resti dentali di Hadrosauridae, tra i quali sono presenti esemplari appena schiusi e giovanili. Questo dato conferma studi precedenti, che avevano dimostrato la capacità dei dinosauri di nidificare anche ad elevate latitudini. Tra i theropodi, rappresentati da resti dentali di tyrannosauridi e paraviali (troodontidi, dromaeosauridi, aviali e forme enigmatiche come Richardoestesia e Paranycodon), il taxon più abbondante è Troodon, spesso associato ai resti di giovani Hadrosauridi. Ciò conferma lo studio di Ryan et al. (1998) sulla probabile predazione degli esemplari giovanili di Hadrosauridae da parte di Troodon. L’abbondanza di Troodon alle alte latitudini pare non essere un’eccezione, bensì la norma delle formazioni Nordamericane del Campaniano-Maastricthiano: studi recenti (Fiorillo, 2008) ed altri in arrivo confermano il successo di questo paraviale negli ecosistemi delle latitudini settentrionali e polari, del Cretacico Finale.
Un saluto a Federico e Lukas, e complimenti per l’eccellente connubio di scienza e illustrazione naturalistica scaturito dalla loro collaborazione! (Come vedete, c'è nuova speranza per la dinosaurologia italica...)
Bibliografia :
Fanti F. & Miyashita T., 2009. A high latitude vertebrate fossil assemblage from the Late Cretaceous of west-central Alberta, Canada: evidence for dinosaur nesting and vertebrate latitudinal gradient. Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 275, 37–53.
Fiorillo A., 2008. On the occurrence of exceptionally large teeth of Troodon (Dinosauria: Saurischia) from the Late Cretaceous of northern Alaska. Palaios 23, 322–328.
Ryan M., Currie P., Gardner J., Vickaryous M. & Lavigne J., 1998. Baby hadrosaurid material associate with unusually high abundance of Troodon teeth from the Horseshoe Canyon formation, Upper Cretaceous, Alberta, Canada. Gaia 15, 123–133.