Non dovremmo arroccarci
dentro le nostre torri d'avorio, né guardare con sospetto e
preoccupazione le iniziative interdisciplinari. Niente è più
salutare per la scienza che la connessione libera, arbitraria e
anarchica tra diverse discipline. La storia pullula di lodevoli
episodi in cui metodi e approcci nati in un contesto sono stati
esportati in nuove branche del sapere, producendo felici ibridazioni
a loro volta produttrici di nuove scoperte e innovazione. Il caso più
onorato nel mio ambito è quello di John McIntosh, di formazione un
fisico, ma anche uno dei massimi esperti di sauropodi del XX secolo.
Io stesso, nella mia tesi di dottorato, ho utilizzato metodologie
sviluppate in epidemiologia molecolare per analizzare il record
fossile. Quindi, nessuno provi ad accusarmi di essere settario,
elitario o xenofobo verso i non-paleontologi che portano (o provano a
portare) contributi alla mia disciplina.
Ma per proporre e
sviluppare un contributo serio in una disciplina diversa dalla
propria, occorre avere l'esperienza e la conoscenza all'altezza della
proposta. Il caso che commento oggi, purtroppo, non rispetta questa
sacrosanta regola. Damasco e Giuliani (2017) propongono un modello
matematico per l'evoluzione biologica. Nello studio, ed è questa la
parte che mi interessa maggiormente, essi interpretano alcune
tematiche paleontologiche macroevolutive alla luce del loro modello.
La mia revisione si focalizza su queste interpretazioni, o meglio, su
come gli autori affrontano ed interpretano i dati paleontologici.
L'articolo è
terribilmente asimmetrico: ad una parte matematica, nella quale gli
autori probabilmente sono più avvezzi, segue una non altrettanto
rigorosa e del tutto insostenibile parte di interpretazione
paleontologica.
Sia chiaro, gli autori non
sono paleontologi. Ma allora, perché impantanarsi in un terreno che
non è il loro? Alla fine della lettura di Damasco e Giuliani (2017)
provo quel genere di sensazione biliare che caratterizza le cattive
digestioni. Pur senza averne i titoli e l'esperienza, gli autori di
questo breve articolo pubblicato in una rivista di fisica, ma avente
come obiettivo l'evoluzione biologica, si prendono il lusso di fare
speculazioni su temi paleontologici (inclusi, ovviamente, i sempre
abusati dinosauri!), e falliscono miseramente. Essi ricadono nello
stesso errore che commise Lord Kelvin un secolo e mezzo fa, quando
obiettò all'ipotesi darwiniana della grande antichità della Terra
(ipotesi necessaria per permettere l'evoluzione biologica nel modo
che oggi riteniamo valido) sostenendo che la fisica termodinamica
imponeva una età planetaria più corta, nonostante che la biologia
portasse – a ragione, sappiamo ora – ad un ben più grande lasso
temporale.
Io non ho sicuramente le
basi matematiche per argomentare al modello matematico proposto in
quello studio, pertanto non è quello l'obiettivo di questa
revisione. Nondimeno, ho sufficientemente bagaglio biologico ed
evoluzionistico per constatare la generale grossolanità nella
visione dell'evoluzione biologica presente in quel lavoro. E
sicuramente ho una conoscenza della paleontologia molto più profonda
di quella degli autori dell'articolo: pertanto, credo di avere i
titoli per analizzare la parte paleontologica di quello studio.
Prima nota: possibile che
l'ampia, intricata, a tratti travagliata, discussione in seno
all'evoluzionismo moderno si riduca in quell'articolo ad una manciata
scarna di citazioni? Non è un dettaglio marginale, in un articolo
che ha nel proprio titolo “biological evolution”. Eppure, se si
legge la bibliografia, gli autori citano sì e no cinque-sei lavori
che trattano dei modelli dell'evoluzione biologica. Interessante che
uno degli articoli citati è Gould & Eldredge (1977), una delle
trattazioni sull'ipotesi degli equilibri punteggiati. Eppure, lo
stesso Gould (2002: “La Struttura della Teoria dell'Evoluzione”)
nella sua monumentale opera conclusiva rimarca in più occasioni che
la loro ipotesi evoluzionistica non si risolve certamente nelle
trattazioni degli anni '70, e che il puntazionismo
gouldiano-eldregiano fu molto rielaborato negli anni '80 e '90.
Citare solamente un lavoro del 1977 è insufficiente per chi voglia
parlare di equilibri punteggiati, figuriamoci se vuole parlare
dell'intera evoluzione biologica! Possibile che un articolo che si
propone di sviluppare un modello alternativo sull'evoluzione
biologica sia così avaro, striminzito e scarno nel riferirsi
all'enorme dibattito al quale vorrebbe contribuire (se non
addirittura portare una volta)? Che ciò implichi la generale
grossolanità ed ignoranza degli autori verso ciò che vorrebbero
argomentare? Temo di sì. Sebbene una critica della visione
dell'evoluzione biologica presente in Damasco e Giuliani (2017)
meriterebbe a sua volta una trattazione dettagliata (ad esempio,
nella sospetta leggerezza con cui gli autori saltano nel loro modello
dal piano di organizzazione degli organismi a quello delle specie,
oppure nell'abuso di virgolettati ogni qual volta gli autori
menzionano la terminologia evoluzionistica, atteggiamento che rende
la loro argomentazione alquanto ambigua), io qui mi focalizzo sulle
implicazioni paleontologiche sostenute nell'articolo: non è
ammissibile che un articolo pubblicato su una rivista scientifica
internazionale soggetta a revisione paritaria e che si propone come
interlocutore in argomentazioni macro-evoluzionistiche applicabili in
paleontologia usi come argomenti a suo favore delle trattazioni così
sempliciotte e imprecise di complesse tematiche paleontologiche. Come
paleontologo, sono piuttosto deluso da questo abuso delle complesse
problematiche su cui la mia disciplina lavora da due secoli.
Difatti, già questo
basterebbe per liquidare lo studio come un puro gioco matematico,
infarcito di terminologie che simulano la biologia e applicato –
per gioco – ad una versione fumettistica della paleontologia. Se
pensate che ora io stia esagerando, vado direttamente al nocciolo del
problema, riportando fedelmente le parti che trattano di
paleontologia.
Dopo aver proposto le
ipotesi ed i corollari del loro modello, gli autori entrano
direttamente in temi paleontologici (nel senso letterale: discorsi
sulla vita del passato):
Interessante la frase
finale: è loro opinione che questo risulterà un utile esercizio per
controllare la plausibilità del loro modello. Ma per stabilire tale
plausibilità nel “reinterpretare” la storia della vita sulla
Terra, occorre che il controllo sia svolto da un paleontologo,
altrimenti è una partita fatta senza arbitro.
Gli autori citano tre
“episodi” (ma sarebbe più saggio chiamarle “fasi”: un
episodio è un evento più puntiforme rispetto a quelli citati) della
storia della Terra:
La “stasi pre-Cambriana”
[sic], la “Esplosione del Cambriano” ed il Mesozoico [sì... il
Mesozoico “in toto”, sebbene poi gli autori si focalizzino sulla
sua conclusione].
Secondo gli autori, tra 2
miliardi e 500 milioni di anni fa (riferito come “Cambriano
inferiore”, sebbene il Cambriano inferiore sia datato a 540-530
milioni di anni fa), la storia della vita è caratterizzata da una
“lunga stasi evolutiva”, sebbene questa non sia né quantificata
né viene riportata alcuna fonte in merito. Aldilà del modo per
quantificare la “stasi pre-cambriana”, credo che gli autori
abbiano frainteso il concetto di stasi. Il record paleontologico
pre-cambriano è caratterizzato da scarsità di parti dure, le quali
sono le principali fonti di record fossile. Pertanto, la vita
precambriana è in larghissima parte una storia di parti molli, e
quindi presenta una ampia lacunosità, dato che le parti molli
fossilizzano solo in condizioni particolari, spesso rare. Ciò
significa che la vita precambriana fu caratterizzata da una “lunga
stasi”? Non necessariamente: significa solamente che ebbe una
ridotta partecipazione di organismi con parti dure. Quale fu l'entità
dell'evoluzione degli organismi a parti molli? Per stabilirlo occorre
quantificare la complessità anatomica di 2 miliardi di anni fa con
quella dell'inizio del Cambriano: se l'entità di modifiche
intercorse è relativamente basso rispetto a quello avvenuto nel
Fanerozoico (dal Cambriano a oggi), sarebbe ragionevole argomentare
su una “stasi”. Analizziamo il record fossile precambriano, anche
solo a grandi linee. Il record fossile risalente a 2 miliardi di anni
fa presenta solamente organismi con un livello di organizzazione
procariotica (come i batteri), e si conclude con i precursori dei
principali piani corporei dei metazoi: un simile salto di complessità
non sarà mai eguagliato, e sebbene si diluisca in un miliardo e
mezzo di anni, è tutto fuor che “statico”. Cellule di tipo
eucariotico, dotate di organelli e nucleo, aventi dimensioni un
ordine di grandezza superiore ai procarioti e dotati di una
complessità altrettando maggiore, si rinvengono attorno a 1 miliardo
e mezzo di anni fa: questo implica che durante il primo mezzo
miliardo di anni menzionato dagli autori vengono acquisiti tutti quei
tratti genetici e cellulari che distinguono gli eucarioti dai
procarioti. Usando la quantità genetica come misura grossolana
dell'aumento di complessità, si va da qualche milioni di basi a
qualche miliardo: 3 ordini di grandezza. Un simile aumento di
complessità genetica non si ripeterà nel Fanerozoico, ed ha
comportato l'evoluzione di una ampia serie di funzioni biochimiche e
cellulari assenti prima. Inoltre, tra 1 miliardo e mezzo e 800
milioni di anni fa avviene l'acquisizione della condizione
pluricellulare, in almeno una quarantina di linee filetiche distinte.
Ovvero, almeno 40 volte si è passati da specie unicellulari a specie
pluricellulari. Siccome intorno a 700 milioni di anni fa abbiamo i
primi fossili riconducibili ad animali (metazoi), durante lo stesso
intervallo di tempo devono essersi originati i principali gruppi
pluricellulari, come funghi e i vari gruppi di alghe. Ognuna di
queste linee evolutive sviluppò specializzazioni cellulari prima di
700 milioni di anni fa. Infine, la presenza di tracce di fondo sempre
più complesse a partire da 700 milioni di anni fa indica una
progressiva diversificazione ecologica nella parte superiore del
Precambriano. Sebbene il record fossile, privo di parti dure, è più
scarso che nel Fanerozoico, tutto indica che la storia della vita
precambriana non fu affatto statica. Sostenerlo è, oltre che
grossolano, del tutto falso.
Gli autori menzionano la
(abusata) formula della “esplosione cambriana” ma non è chiaro
come il loro modello sia utile per comprendere l'origine e
diversificazione dei metazoi dotati di parti dure avvenuto durante la
metà del Cambriano. Gli autori citano due fattori: “la relativa
rapida successione di eventi climatici e geologici” e “la
situazione in cui le specie prima dell'esplosione erano simili tra
loro” e questo, nel loro modello, indurrebbe una rapida
diversificazione. Il primo fattore è del tutto estraneo al loro
modello: è una mera constatazione di quanto sappiamo dal record
fossile. Citare “la successione di eventi climatici e geologici”
è rifarsi alla Geologia Storica, è un riconoscere che il modello
proposto è talmente semplice da non spiegare alcunché. Se il
modello proposto deve ricorrere alla Geologia Storica, allora
restiamo pienamente in Geologia e non abbiamo bisogno di modelli
matematici. Il secondo fattore è contraddetto da quanto sappiamo dal
record fossile: come ho scritto prima, il record fossile ci mostra
che la diversità delle tracce negli ultimi 150 milioni di anni del
Precambriano è progressivamente aumentata: pertanto, non è vero,
come sostengono gli autori, che prima della “esplosione” le forme
viventi fossero relativamente simili: se quello fosse stato il
fattore chiave, allora l'esplosione avrebbe dovuto avvenire ancora
prima di 700 milioni di anni fa, invece che 530 milioni, ovvero
quando le forme erano ancora più simili tra loro di quando
avvenne l'esplosione!
Questo è un falso
problema, nel quale anche Gould cadde quando parlò dell'esplosione
cambriana nel suo noto libro “Wonderful Life”. Una scorretta
interpretazione della sistematica ha portato in passato (e porta
ancora molti, purtroppo) a considerare la radiazione metazoa del
Cambriano (l'esplosione) come un evento unico nel suo genere. In
realtà, è la nostra tradizione tassonomica linneana, che
gerarchizza i cladi in categorie di diverso “grado”, ad aver
eletto la radiazione cambriana come “speciale”. Dato che i
“phyla” non sono entità speciali, ma cladi come qualunque altro,
domandarsi come mai i “phyla” compaiano solo nel Cambriano
equivale a domandarsi come mai i cladi più inclusivi compaiano prima
di quelli meno inclusivi: per mera definizione di “inclusivo”.
Quindi, l'esplosione cambriana è “unica” solo per un artefatto
delle nostre tassonomie. Semmai, il quesito significativo è quale
fattore portò alla rapida evoluzione di parti dure durante il
Cambriano Medio: ma questo è un tipo di domanda contingente, ovvero
squisitamente naturalistica, che non può in alcun modo essere
risolto da un modello matematico generale.
Ok, fino a questo punto ho
cercato di argomentare agli errori paleontologici ed alle
grossolanità presenti in Damasco e Giuliani (2017) in modo pacato.
Tuttavia, leggere nel 2017, in un articolo su rivista scientifica
internazionale soggetta a revisione paritaria, che il Mesozoico fu
“dominato dai rettili”, che i mammiferi erano “simili
agli odierni topi” e che comparvero i primi “piccoli uccelli”,
è non solo ridicolmente grossolano, ma anche fastidioso per chi
studia la paleontologia dei vertebrati mesozoici da 15 anni. La
grossolanità raggiunge l'apice con il più classico degli stereotipi
sul Mesozoico, l'idea, del tutto priva di basi, che esso fosse
caratterizzato da “un clima molto stabile”. La stessa idea di
ridurre l'intero Mesozoico ad un singolo gradiente climatico è
ridicola a chiunque abbia un minimo di dimestichezza col tempo
geologico. In ogni caso, abbiamo evidenze di condizioni climatiche
estreme durante il Mesozoico, e sarebbe molto ingenuo ridurre la
relativa scarsità di condizioni polari/glaciali del Mesozoico ad una
stabilità ed uniformità geografica e temporale globale.
L'argomentazione portata
dagli autori per sostenere una validità del loro modello per
l'estinzione del Cretacico finale è, scusate la brutalità,
patetica: essi sostengono che i dinosauri erano “long-lived
animals” e che quindi, in base al loro modello, ciò li renda
differenti dai primi uccelli e i primi topi [sic]. Questa
ipotesi di partenza è falsa su qualsiasi piano paleontologico: gli
uccelli SONO dinosauri, e non ci sono motivi per considerare
Triceratops prorsus (specie di dinosauro della fine del
Mesozoico) una forma “long-lived” rispetto a Vegavis iaii
(specie di uccello, nonché dinosauro, della fine del Mesozoico).
Entrambi appartengono a cladi che si diversificano nella seconda metà
del Cretacico Superiore, e non ci sono motivi per cui il modello
matematico proposto dagli autori sia in grado di distinguere l'esito
delle due storie evolutive. Inoltre, alla fine del Mesozoico si
estinsero anche molti tipi di uccelli e di mammiferi. Forse gli
autori pensavano che tutti gli uccelli e tutti i mammiferi del
Maastrichtiano si rinvengono vivi ed intonsi nel Daniano? Limitandomi
agli uccelli, alla fine del Cretacico scomparvero gli enantiornithi,
gli hesperornithidi, e vari tipi di ornithuri molto prossimi ai
neornithi, unici a passare il limite K-Pg. Alla luce del modello
sostenuto dagli autori, cosa distingue questi uccelli da quelli che
sopravvissero? Lo stesso discorso vale per i mammiferi estinti
rispetto a quelli che sopravvissero, o per Nautilus rispetto
agli ammonoidi. O per quelle 3-4 forme di foraminifero che
sopravvissero mentre tutte le altre furono cancellate. O per i
mosasauri, nel pieno della loro radiazione adattative, rispetto ai
noiosi champsosauri che passarono il limite senza estinguersi.
Pertanto, non c'è alcun tipo di prova empirica e paleontologica che
i dinosauri fossero per qualche ragione “diversi” dai mammiferi o
dagli uccelli in relazione alle caratteristiche del modello
matematico proposto. Il modello funziona solo se si crede alla favola
del Mesozoico dal clima stabile e si crede che un uccello (neornithe)
sia qualcosa di diverso da un dinosauro (e dagli uccelli che
si estinsero!). Alla luce della totale grossolanità del modello e
del modo con cui non spiega nulla, concludo che gli autori hanno
forzato pretestuosamente le loro grossolane (ed errate) concezioni
sui dinosauri e sul Mesozoico per adattarle alle (altrettanto
grossolane) caratteristiche del loro modello matematico.
Questa non è scienza, ma
puro gioco matematico applicato a favole e mistificazioni infondate.
Credo sia una malattia
tipica di alcuni rami delle scienze fisiche, o di certi ricercatori tendenti alla fisica, la presunzione di
essere in grado di fornire spiegazioni anche ai fenomeni studiati da
altre discipline. Immaginate se io, paleontologo evoluzionista,
pubblicassi un articolo nel quale suggerisco un modello
paleontologico del decadimento radioattivo. Immaginate le risa e le
burla rivolte ad un articolo ridicolo in partenza. Eppure, io potrei
obiettare in quella situazione, che all'Università ho sostenuto (con
tanto di lode!) l'esame di fisica, e che quindi non sono del tutto
ignorante in materia. Se io “so” cosa sia il decadimento
radioattivo, perché non dovrebbe essere accettata la mia proposta?
Dopo tutto, non è quello che ci stanno dicendo gli autori di questo
articolo con le loro pretestuose spiegazioni paleontologiche?
Forse, semplicemente, la
risposta è che non basta la conoscenza base per fare di me un fisico
nucleare. Difatti, io mai mi azzarderei a scrivere un articolo nel
quale mi propongo di rivoluzionare la fisica usando un qualche
modello generale dedotto dalla paleontologia. Ed allora perché
invece un articolo acquisisce il
diritto di essere pubblicato nonostante che sia pieno di errori,
grossolanità e obsolete rappresentazioni di una disciplina diversa
da quella degli autori?
Si torna al solito
problema: la paleontologia vista come scienza di serie B, o meglio,
una disciplina che non richiede decenni di studio ed esperienza, una
disciplina che chiunque con una base in altre scienze può pretendere
di rifondare. Credere che basti aver letto da qualche parte che ci fu
una “esplosione cambriana” per poter sviluppare un modello che la
descrive, non è forse arroganza? Pensare che l'enorme complessità
del fenomeno chiamato “estinzione di massa globale del
Maastrichtiano terminale” sia riducibile ad un modellino in cui i
lenti e vecchi dinosauri scompaiono in virtù di qualche artificio
matematico non è forse presunzione e supponenza? Così come io
rispetto il lavoro duro e profondo di chi fa ricerca in fisica, e non
oserei mai scimmiottare la loro disciplina pubblicando delle banalità
fisiche su un articolo paleontologico, così sarebbe saggio, onesto e
sopratutto rispettoso del lavoro dei paleontologi, se i fisici, chimici o
altri si avvicinassero alle discipline altrui con il rispetto e la
serietà di chi ha ancora molto da imparare.
Purtroppo, non tutti si
chiamano John McIntosh.